Un calcio poco italiano

di Gianni Mura


Franz e Carletto
Alzando la Coppa intercontinentale a Tokyo, nella notte (italiana) tra il 16 e il 17 dicembre 1989, il Milan tornava dov'era stato una volta sola, a venti anni esatti di distanza. La prima fase del ciclo era conclusa, e merita di essere riletto il breve commento-bilancio di Gianni Mura.

Qualche atteggiamento un po' enfatico del Gruppo si può discutere, il resto no. Il resto è un Milan che fa filotto e se vogliamo tutto è nato da quel pomeriggio napoletano: lo scudetto, la coppa dei campioni, la supercoppa italiana e quella europea, la coppa intercontinentale. Steaua, Sampdoria, Barcellona e Medellin, passando più volte sul Real Madrid, sono squadre molto diverse fra loro e il Milan le ha battute restando uguale a se stesso, facendo quasi sempre a meno del suo uomo più pesante, Ruud Gullit. La squadra più difficile, per molti una sorpresa, quella venuta dalla Colombia. Una specie di copia del Milan, così ne è nata una partita di noiosissima tensione, sbloccata da Evani quando ormai pareva destino andare ai rigori (e ammirare Higuita, gran portiere nella sua apparente follia, che personalmente acquisterei volentieri). 

Solo ossimori venivano in mente guardando la partita: ordinato disordine, calma tempesta, bella bruttezza. Emergeva l' orgoglio del Medellin, combattivo ma sempre leale, bravo a far giocare il Milan in pochi metri, più bravo del Milan nel vanificare il pressing con fitti tocchetti precisi, ma poco organizzato in attacco. Non che il Milan lo fosse molto, per la cattiva giornata di Massaro e Van Basten e la scarsa vena di Donadoni. Pure, il Milan ha vinto senza rubare nulla, esattamente come le altre volte. 

E in questa sua vocazione internazionale sta la sua grandezza. A parte la sera della nebbia a Belgrado, in Europa ha perso solo la prima partita di Sacchi, con l' Espanyol, e l' ultima, col Real, a spalle coperte. E' ovvio che per firmare una passeggiata del genere non bastano i miliardi di Berlusconi e che siamo di fronte a una realtà calcistica che ha già segnato un periodo e forse segnerà un'epoca.
Al di là del valore dei giocatori e della panchina lunga, appaiono sempre più evidenti i meriti di Arrigo Sacchi, un tecnico che pure chiama ossimori, quasi arrogante nell'umiltà sbandierata, uomo di semplice complessità. Sacchi ha il merito di non somigliare a nessuno, lui troppo presto etichettato come signor Nessuno. Il suo matrimonio sportivo con Berlusconi, presidente ovunque, molto sensibile alle tematiche tattiche, ha avuto un paio di momenti assai difficili (facile per Agnelli dire a Berlusconi che si era portato un padrone in casa) ma sembrano essersi assestati su una solida base di inevitabile stima. E' buffo pensare come le grandi fortune nascano dal caso: se un sorteggio di coppa Italia non avesse opposto il Milan al Parma, forse Berlusconi avrebbe scelto un allenatore straniero (questa era l'intenzione) e forse Sacchi avrebbe continuato a predicare il suo verbo, martellando quotidianamente, sotto altri colori. 

Il Milan, squadra di Milano, è una squadra assai poco italiana nel gioco e soprattutto nella mentalità, che è alla base del gioco. Basta seguirlo una volta all'estero per rendersene pienamente conto: il prezzo del biglietto lo vale sempre, per come vince o cerca la vittoria come unico risultato. Sarà interessante, ora, vedere per circa due mesi questa supersquadra impegnata solo in Italia. Dove non fa scuola, dove al massimo fa moda. Ma questa non è colpa del Milan, in un paese calcisticamente democratico ci sono tante idee, anche opposte. Forse il segreto del Milan non è la zona, è la voglia di giocare subendo il meno possibile. L' uovo di Colombo, certo, un altro tipo da intercontinentale.

"La Repubblica", 19 dicembre 1989