Ultimo tango

[19 giugno 1974, Neckarstadion, Stuttgart]

Nonostante le infinite occasioni create, i nostri non riuscirono a sotterrare la matricola haitiana sotto la valanga di reti che avrebbe messo a tacere la critica e i pessimisti di vocazione. Col senno di poi, sarebbero bastati un paio di gol in più. E sarebbe bastato vincere contro l’Argentina, qualche giorno dopo.

L’ambiente è turbato, i laziali fanno fuoco e fiamme, e Chinaglia (inguardabile nella prima partita) resta in panca. La partita è strana, l’Albiceleste, che certamente non è in un momento di particolare fulgore, presenta gente a noi quasi sconosciuta, capelli lunghi e calzettoni abbassati, alla Sivori. I più famosi sono Héctor Yazalde, cannoniere dello Sporting Lisbona, Ruben Ayala, arrivato nel ’73 all’Atletico Madrid, e l’arcigno Heredia, pure lui militante nei Colchoneros e in campo a Bruxelles per la recente finale di Coppa dei campioni, vinta dal Bayern nella ripetizione. In Spagna giocavano da un anno anche il portiere titolare, Daniel Carnevali (a Las Palmas), mentre in Francia si era trasferito il terzino sinistro Bargas (a Nantes). C’è anche un giovane e acerbo Kempes. Il migliore è senz’altro René Houseman, trequartista rapido e astuto, ventunenne. La bilancia anagrafica (poiché si stima la gioventù degli avversari un fattore sensibile, a fronte della nostra maturità) pende dal lato sudamericano. Sono, mediamente, di tre anni più giovani dei nostri. Furbi, parecchio. Ma la temuta rissa non esplode mai.

L’Argentina passa in vantaggio. Fabio Capello non legge in tempo l’inserimento di Houseman (che Valcareggi quasi auspicava fosse in campo: è “uno che indulge troppo alla preziosità e alla finezza del palleggio, danneggiando nel contempo la velocità dell’azione”, così all'inviato del Corriere della Sera, la vigilia), messo davanti a Zoff con un abile filtrante da Babington. Impeccabile la conclusione. Il pareggio arriva subito ed è un autogol, lo procura Benetti che, ottimamente imbeccato da Rivera, controlla male di petto mentre irrompe in area. La traiettoria si allunga, Perfumo aveva calcolato un altro tempo di entrata, Carnevali è beffato [foto, sotto]. Il primo tempo è tutto qui.


La partita è strana. Nella parte centrale del secondo tempo loro esercitano una certa pressione, che costringe i nostri ad arretrare e attestarsi a protezione sul limite dell’area. Un catenaccio involontario, reso fine a se stesso dalla difficoltà di innescare il leggendario contropiede, a causa dei molti disimpegni sbagliati. Nando Martellini è in ansia, occorre uscire da questa trappola. Urgono sostituzioni. “Anche Wilson si sta scaldando, ci saranno due cambiamenti probabilmente nella nostra squadra mentre l’Argentina viene avanti con Babington, colpo di testa di Burgnich ma la palla rimane sempre agli argentini, ad Ayala, Babington, ha respinto ancora Burgnich, è un muro al limite dell’area, va a terra Rivera, va a terra Rivera, molto stanco. Houseman … [fischi] Fallo di Benetti su Houseman e calcio di punizione mentre viene fermato il giuoco. Valcareggi richiama Rivera e Morini e fa entrare Causio e Wilson. Rivera e Morini ritornano in panchina: Rivera stanco e Morini che risente ancora dell’incidente”. L’altoparlante annuncia le sostituizioni. Il pubblico fischia quando viene pronunciato il nome di Morini. Resta in silenzio quando viene annunciata l’uscita di Rivera.

Quel pallone perduto sulla nostra tre quarti – un controllo riuscito male: stava progettandone l’uso a vantaggio dei compagni – è l’ultimo toccato da Gianni in maglia azzurra.

Mancano meno di tre minuti al 90°. Causio, allargatosi sulla sinistra, imbecca bene Riva in area, che uncina di sinistro la sfera in coordinazione difficile, ma se la allunga troppo. Era in fuorigioco. Poco dopo, alla fine di un’azione insistita, con parecchi rimpalli, organizzata sulla destra da Causio e  Benetti, lui si muove su tutto il fronte, a cercare la posizione, ma l’azione finisce con un tiro telefonato di Causio. La telecamera va su di lui, che alza le braccia come a rimproverare i compagni che non l’hanno servito. Sono gli ultimi istanti di Rombo-di-Tuono in nazionale.


I reprobi

Nazionale ‘tradita’ dal cervello Rivera e dal cannoniere Riva.
La sconcertante svagatezza di Rivera.
Rivera nettamente sopraffatto da Telch.
Ora tutto rischia di franare perché lui, Riva, non c’è.
Rivera, fiacco e svagato, tentava improbabili lanci.
Si è visto un Rivera smarrito e umiliato.
Quasi svergognato nelle sue arti di stilista.
Ha sbagliato cose elementari, si è lasciato soffiare palloni come un principiante.
Non ha nelle gambe i novanta minuti di una partita.
Riva: se ne sta laggiù ad aspettare il pallone, come un gigante disarmato.
Per anni la nazionale ha giocato per Riva, per anni è stato l’intoccabile mostro sacro. Ora ha già fallito due volte la prova. Non si può rischiare di farlo fallire una terza volta.
Per la verità Riva ha fallito la prova in modo clamoroso anche perché gli sono venuti a mancare i lanci di Rivera, a sua volta in defaillance.

Rivera e Babington

Rivera: "Forse si pretende sempre che io vinca la partita da solo".

Valcareggi: "Rivera non era in giornata normale, ma non è il caso di drammatizzare. Io non mi preoccupo. Lo conosciamo tutti. Rivera non è in discussione".

Valcareggi: "Riva è in buone condizioni fisiche. Qualcosa non ha funzionato, e si è reso meno pericoloso del solito".

Mazzola, invece, è salvo.

Mans


Gianni Brera, vate di Eupalla

Pubblichiamo l'intervento di Maurizio Harari, letto nell'ambito di "Brera: pensieri liberi sul più seducente giornalista sportivo del Novecento", incontro svoltosi a Pavia il 27 settembre 2019, in occasione del centenario della nascita di Gianni Brera.


All’uditorio dei Senzabrera parlerò da outsider e voyeur eminentemente palabratico di calcio, lettore affezionatissimo del Vate per circa trent’anni e specialmente appassionato del suo “Guerin sportivo” e dell’inimitabile rubrica dell’Arcimatto. E parlerò anche come studioso e docente di mitologia, perché di narrazione mitologica qui si tratta: e adotterò un approccio scientifico, squisitamente accademico, analizzando le fonti (cioè la fonte: il Brera medesimo) e ricostruendo immagine e funzioni della Dea.

Eupalla chi è? La sua presenza e attualità nel web è impressionante. La definizione è comunque breriana, con tanto di etimologia: la “benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi” e “presiede alle vicende del calcio ma soprattutto del bel gioco (dal greco eu, ‘bene’)”. Attenzione, però, ché ‘benevole’ sono in Grecia le Eumenidi ossia le Erinni, le Furie tormentatrici di Oreste... Il teonimo è dunque composto dall’avverbio gr. eu e dall’it. palla: la Ben-palla, cioè Colei che (se ne ha voglia) fa giocare bene a palla – come Eu-terpe era, per es., la Ben-piacente. 

Non sembra necessario cercarvi l’epiteto Pallas, Pallade (di Atena), quantunque Brera accosti Atena ad Eupalla in una similitudine che traiamo dalla sua cronaca dell’Italia-Germania 1970: “Albertosi voleva strozzare Rivera, che se ne andò mestamente avanti mentre Bonimba spendeva le ultime energie in un’eroica sgroppata […] Pensai, riflettendoci, al duello fra Achille e Ettore sotto le porte Scee. Achille scagliò la lancia: Ettore la schivò: Pallade Atena la raccolse per ridarla al Pelide: allora il prode figlio di Priamo si accorse che la sua sorte era segnata. Una Pallade Atena che poteva benissimo chiamarsi Eupalla evitò a Rivera lo strangolamento da parte di Albertosi e gli offrì benigna la palla di Bonimba che significò il suo trionfo”. Ma corretta esegesi di quel passo mostra che Eupalla rimane Eupalla, fra Albertosi e Rivera, così come Atena fra Ettore e Achille – e il Bonimba, come si è visto, fa la parte della lancia (con confronto quasi ironico e sconveniente a una struttura fisica che evocava il nano circense Bagonghi). La similitudine è letteralmente omerica, in una scrittura esplicitamente epica e perciò formulare e infarcita di neologismi e nomignoli fortemente espressivi. 
Com’è fatta Eupalla? Non mi pare che Brera l’abbia mai precisamente descritta. Si sa che è femmina, inequivocabilmente tale, e dunque s’apparenta alla passività “volubile” delle squadre italiane – e dell’Inter in particolare, che è “passionale […] agli antipodi del pragmatismo che caratterizza la Juventus” –; a dispetto del nome è “una dea, non una sfera” e “secondo com’è vista può sembrare”. Quasi una statua di Lisippo, che faceva la figura umana non com’è – dice Plinio – , ma come la si vede o la si vuol vedere. 
L’immaginiamo, in ogni caso, opulenta come un’ostessa, col panneggio abbondante di Musa e la palla (invece che il rotolo o il compasso o il flauto) nella mano. Mirko Volpi l’ha vista, in un paradiso che, anche a prescindere dall’autorità dantesca, non poteva non essere sferico, “assisa in regal trono” avendo ai lati Iohannes Brera, appunto, e Pelè, “il re dei bipedi giuocator”.

Quali sono le funzioni della dea Eupalla? Essenzialmente due. La prima attiene al suo statuto onomastico e iconografico: è la Musa che ispira la scrittura di sport e soprattutto la scrittura di calcio. L’incipit di una Tottiade di recente pubblicazione (Costantini 2013) suona infatti brerianamente così: “O Musa pedatoria, / o Sfera dei Capricci, / raccontaci una storia, / del grande calcio dicci / Eupalla diva” ecc. ecc. 
La seconda funzione investe direttamente il “giuoco” – da pronunciare alla maniera del Cavaliere –, in quanto la dea agisce da Tyche, indirizzando gli esiti capricciosi, indecifrabili e ingovernabili di un confronto in cui non sempre vince chi è meglio organizzato.
In proposito, Stefano Benni ha evocato un’altra dea apparentemente speculare e antitetica, Dispalla, che “con sghemba e beffarda mano fa impazzire le traiettorie e sbilenca le parabole”; ma non s’è accorto che la sua Dispalla altri non è se non il volto oscuro della Medesima, in una dialettica pilotata da eventi accidentali, che scoraggia le teorizzazioni degli ideologi del calcio totale e pretende la semplicità euclidea e l’astuzia ulisside del contropiede all’italiana. 

Questa doppia qualità della Dea si manifesta nell’espressionismo lessicale di una scrittura che trascende l’ ”argomentare di pedate” – “inutile come cercar di governare l’Italia secondo Benitone da Predappio” – e costruisce, non so quanto volontariamente, una specie di memoria culturale. Rivera come Achille, Riva come Brenno, Maradona un Cerbero, l’arbitro “un po’ magistrato e un po’ sacerdote” (e il boxeur Alì il protetto degli “dei della foresta e della savana”). 

Qui s’intersecano letteratura antica e antropologia culturale – il “razzismo” di Brera proviamo a considerarlo da questo punto di vista – nell’edificazione di cronaca in cronaca di un intero “Ramo d’oro” dello sport, intessuto da un indimenticabile sir James Frazer “di riva e di golena, di boschi e di sabbioni”. 

Maurizio Harari (Direttore del Dipartimento di Studi umanistici dell'Università di Pavia)

Audio e video di tutti gli interventi della giornata qui