The match of the century

25 novembre 1953. L'Empire Stadium di Wembley ospitava quello che, per i presuntuosi sudditi della regina, andava così etichettato: match of the year. In realtà, l'anno divenne presto 'secolo', prima che un altro match (Italia-Germania 4:3) meritasse uguale celebrazione. In campo a Londra, dunque, i campioni olimpici, campioni di un'Olimpiade cui non avevano partecipato nazionali 'vere' dell'occidente europeo e del continente sudamericano, contro i campioni di nulla (tutt'al più, questo sì, della British Home Championship e solo di quella) ma detentori di un primato che non cesseranno mai di rivendicare: l'invenzione del gioco. Ed eternamente imbattuti tra le mura amiche da compagini davvero 'straniere': quelle della Home Championship facevano parte della stessa grande 'famiglia' calcistica, nonché del medesimo Regno; il dominio dei Tre Leoni (seppure non incontrastato) era qui sancito dalle statistiche, ma i tabellini dicono che la Scozia aveva espugnato Wembley nella primavera del '51, bissando l'impresa del '49.
Tant'è.

Inghilterra contro Ungheria, dunque. Fu davvero una sfida memorabile, cui nessuna storia del football mancherebbe di dedicare un capitolo centrale. Un match che, col passare dei decenni, ha mantenuto intatto il suo fascino, arricchito dalla dimensione leggendaria dell'undici ungherese e dall'incessante 'outing' della critica albionica, che (a differenza dell'ultra-conservatrice Football Association) immediatamente comprese il senso e le conseguenze della cocente umiliazione inflitta dall'Aranycsapat agli uomini di Walter Winterbottom. Basterà, al riguardo, leggere le densissime pagine che al match dedica Jonathan Wilson [Inverting the pyramid, pp. 129-139 della traduzione italiana], così chiudendo il discorso:

"Certamente, quella serata di novembre, con le bandiere ammosciate nella nebbia sopra le Twin Towers, destinate queste ultime a riverberare il lavoro di Luytens a Nuova Delhi, non ci volle un grande sforzo d'immaginazione per riconoscervi la sconfitta simbolica dell'Impero".
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Wednesday November 25 th 1953, 2:15 pm
 Empire Stadium, Wembley



I protagonisti
England
Gil Merrick
Alf Ramsey | Harry Johnston | Bill Eckersley
Billy Wright | Jimmy Dickinson
Ernie Taylor | Jackie Sewell
Stanley Matthews | Stan Mortensen | George Robb
-
Ferenc Puskás | Sándor Kocsis
Zoltán Czibor | Nándor Hidegkuti | László Budai
József Zakariás | József Bozsik
Mihály Lantos | Gyula Lóránt | Jenő Buzánszky
Gyula Grosics (Sándor Gellér)
Magyarország
-
Gli allenatori: Walter Winterbottom | Gusztáv Sebes
Il tabellino

I documenti
 "Il piano tattico per la partita di Londra" preparato da Gusztáv Sebes
Il filmato della partita (Full match) | Il gol di Ferenc Puskas
La gallery | I gol nei disegni di Carmelo Silva: Hidegkuti (0:1 - 1') - Puskás (1:3 - 25')


L'analisi tattica

Le cronache
25 novembre
La profezia di "Tintin"
"La Stampa" (Vittorio Pozzo)
"El Mundo Deportivo" (Carlos Pardo)

26-27 novembre
"El Mundo Deportivo": Hungria, jugando un furbal maravilloso, vencio a Inglaterra
"La Stampa" (Vittorio Pozzo)

Stampa inglese

La "rivincita"
23 maggio 1954, Népstadion, Budapest

L'Aranycsapat

Gli instant books
Brian Glanville, Soccer nemesis (1955) | Willy Meisl, Soccer revolution (1955)

Le memorie

I commenti

Brian Glanville
Jonathan Stevenson

Il 60° nei media internazionali
Gellert Tamas, England v Hungary - a football match that started a revolution (BBC, 23/XI)
Enrico Franceschini, 60 anni fa, la partita che fece crollare un impero (anzi due) ("La Repubblica", 23/XI)
Chris Bevan, Jimmy Hogan: The Englishman who inspired the Magical Magyars (BBC, 24/XI)
Jonathan Wilson, England 3-6 Hungary: 60 years on from the game that stunned a nation ("The Guardian", 25/XI)

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Hanno vinto i guerrieri

Il 22 novembre 1969, nel catino ribollente del San Paolo, gli Azzurri schiantano i tedeschi dell'est e ottengono la qualificazione ai mondiali messicani. Di quella partita tutti ricordano il volo d'angelo di Gigi Riva, su cross perfetto di Domingo. Ma fu solo il sigillo del tre a zero e di una partita perfetta, turbata alla vigilia da ansie scaramantiche (Riva, in assenza di Anastasi, non voleva la maglia numero nove, quella con cui si era fratturato all'Olimpico nel marzo del 1967, in un'amichevole contro il Portogallo). Era comunque uno spareggio (un pari avrebbe portato a un ulteriore spareggio). E l'Italia lo affrontò con due esordienti (Cera e Chiarugi). Riproponiamo il commento a quella partita firmato da Giovanni Arpino.

Napoli, lunedì mattina [23 novembre]
II più grande Mazzola degli ultimi anni ha diretto, orchestrato, organizzato gli azzurri nella loro gara contro i tedeschi dell'Est. Tre gol esaltanti, di quelli che entrano nella memoria non solo dei tifosi ma dei più severi critici di calcio, una prestazione atletica notevole, una volontà agonistica che non è mai venuta meno. E, su tutti, Sandrino Mazzola: ha segnato nei primi minuti una rete straordinaria, con un «taglio» secco e imprevedibile su pallone pervenutogli da Riva gettatosi in area; ha impresso un tale ritmo alla gara da far soffrire non solo i tedeschi, ma lo stesso centrocampo azzurro, abituato a manovre più molli, a passaggi magari precisi ma parabolici, non secchi e decisi e sventagliati come quelli di «Baffo». Ha difeso la nostra area con la tenacia dì uno Schiaffino arretrato. Ha tenuto novanta minuti su novanta, mai desistendo dall'affrontare, inseguire, controllare, ribattere, impostare.

Questa nazionale non è perfetta come molti la sognano, non è ancora un meccanismo d'eccezione. Ha sfasature e ristagni, qua e là, ha alcuni uomini di difesa un po' in ombra, o per difetto di forma o per mancanza di .senso di posizione (tranne Pula e Facchetti sempre registratissimi). Però la si vede, la si capisce, la si intuisce in progresso. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una trasformazione del complesso azzurro. Fortissimo in difesa, dove sapeva costruire quadrilateri pressoché insormontabili, era sempre stato difettoso, troppo leggero, troppo gracile e prevedibile all'attacco, con uomini che esitavano, che non sapevano reggere a un ritmo accelerato, che non sapevano buttarsi con accanimento e potenza sui palloni elaborati dal centrocampo. Oggi il discorso è diverso: abbiamo attaccanti migliori dei difensori, in grado di far pendere la bilancia a nostro favore anche dopo un inizio faticoso e sfortunato. 

Oggi c'è Riva, c'è Chiarugi. Riva è una potenza d'eccezione, lo sappiamo, che si batte con un orgoglio incredibile, tanto da non dar peso a menomazioni fisiche che fermerebbero chiunque altro, più timido e preoccupato di sé. Ha strappato a portiere e terzino avversasario il pallone del primo gol per Sandrino, ha costruito il secondo per Domenghini con una progressione da metà campo che faceva gridare alla bellezza del gesto atletico pieno, ha messo in rete il terzo con un volo planato che iniziò nel momento stesso in cui partiva il cross di Domenghini da destra. Un volo migliore di quelli di Tarzan. E c'è Chiarugi. All'esordio, dovendo duettare con Riva, si sono subito ritrovati per identica velocità, decisione, inventiva, con reciproci traversoni volanti bellissimi. 

La nazionale esiste, sta uscendo dal guscio e con fattezze ormai chiare. Basta avere il coraggio di portar avanti l'operazione, creare un gruppo di sedici, diciotto, venti giocatori che esprimano, secondo la forma e lo smalto del momento, l'«undici» migliore. Allora non solo non si sfigurerà in Messico, ma, fortuna e intelligenza assistendo, si potranno ottenere anche risultati superiori al nostro eterno scetticismo. 

E i tedeschi? Lo si era detto più volte: tra i nostri azzurri e la squadra di Seeger ci sono tre reti di differenza. Potevano essere almeno cinque, ma forse è meglio così. Il gol di Mazzola ha schiodato l'incontro subito, agli avversari non è bastato più il gioco a ragnatela di centrocampo. Hanno dovuto premere, scoprirsi, quindi essere puniti in contropiede. 

Non illudiamoci eccessivamente, però riconosciamo che il materiale azzurro a disposizione di Valcareggi e Mandelli è notevole: può solo migliorare e organizzarsi di più, se lo si elabora con fiducia e senza isterie, senza inutili timori. I guerrieri ci sono. E allora: coraggio, ammiragli e generali. Al Messico c'è un ruolo che dobbiamo saper interpretare come merita il nostro campionato, tra i più difficili e duri del mondo, e come meritano i nostri singoli giocatori, maturi per dimostrarsi all'altezza di tante eredità e di tanti serissimi collaudi. Non vendiamo la pelle dell'orso prima di avergli sparato. Però la cartuccia in canna c'è: ora aggiustiamo la mira. E per concludere: tre grandi gol azzurri, il gancio sinistro di Benvenuti, «Canzonissima », tutto in un solo giorno. Fratelli (ovvero ragazzi) d'Italia: è il caso di dire, troppa grazia Sant'Antonio?

[La Stampa, 24 novembre 1969]

La prima volta degli Azzurri a Solna

A destra nella foto, Francesco Bontadini,
autore del gol decisivo nella partita rievocata.
Giocò nel Milan e nell'Inter.
Le cronache di Monsù
8 novembre 1951

L'11 novembre del 1951 gli Azzurri avrebbero affrontato la Svezia a Firenze, per un match amichevole. Vittorio Pozzo ne approfittò per rievocare la prima sfida tra le due nazionali, che andò in scena al Råsunda Idrottsplats di Solna durante i Giochi Olimpici del 1912, valevole solo per il 'Torneo di consolazione'. Un racconto di grande spessore umano, ironico e toccante.

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La conformazione geografica dell'Europa non favorisce gli incontri fra la Svezia e l'Italia. Se proprio non ci si va a cercare, non ci si trova. Effettivamente, gli Azzurri, mentre hanno incrociato i ferri ventotto volte cògli svizzeri, e ventuno ciascuna cògli austriaci e gli ungheresi, e diciannove coi francesi, e via di questo passo, contro gli svedesi non si sono allineati che in quattro occasioni. Ed ancora due di esse, la prima e l'ultima, fu il caso, sotto la forma del sorteggio o degli accoppiamenti dei grandi tornei mondiali, non la volontà degli interessati, a determinarle. 

Il primo di questi incontri fra le Nazionali della Svezia e dell'Italia deve proprio la sua esistenza ad un cumulo di circostanze casuali e concomitanti. Di esso, il sottoscritto fu, più che testimone, parte in causa. Perché la gara coincide colla sua prima esperienza in veste di comandante della nostra Nazionale. 

Si era nel 1912, e l'Italia aveva iscritto i suoi calciatori al torneo delle Olimpiadi di Stoccolma. La Federazione Italiana Giuoco Calcio aveva sede a Torino allora. Ne era Presidente il marchese Alfonso Ferrero di Ventimiglia: chi scrive queste linee ne era il Segretario. Le crisi erano all'ordine del giorno a quell'epoca. Non le ha inventate né la Fiorentina, né la Roma. Bastava una partita perduta, una squalifica, un caso di professionismo, una tessera concessa o negata, per mandare all'aria Commissioni, Consigli e Direttori. Così, per la partita persa a Torino l'11 marzo di quell'anno, per 8 a 4, contro la Francia, cadde la Commissione della Squadra Nazionale. Se ne formò un'altra in maggio, composta da Armano, Baruffini, Faroppa, Ferraris, Goodley, Meazza e V. Pedroni. Non entrò mai in carica, diede subito le dimissioni. A giugno, scomparve anche la Presidenza Federale. Che fare? A Stoccolma si era iscritti ed il Comitato Olimpionico voleva che si andasse. Il marchese Ferrero mi pregò di rimanere in carica e di fare del mio meglio. E si andò. 

E, come organizzazione si trovò poco o niente di fatto, e la squadra dovette adattarsi a pernottare in una scuola. Ed i pasti li consumavano nell'unico ristorante italiano della città, assieme al povero Lunghi, il mezzofondista, ohe aveva delle idee un po' poco ... puritane sulla preparazione fisica degli atleti. Eravamo stati estratti a giuocare, in eliminatoria, contro la Finlandia. E giuocammo, ed a sorpresa generale perdemmo, per due a tre, per una rete dei tempi supplementari. Era arbitro Hugo Meisl. 

La nostra squadra, era quella che era. Quella che si era potuto mettere assieme nel disordine delle circostanze. Degli uomini che noi avremmo voluto, erano mancati, p. es., Ara e Rampini della Pro Vercelli, e Fossati dell'Inter e Cevenini I del Milan. Altri li avevamo scartati noi invece: p. es. Giuseppe Caimi, dell'Inter, di cui eravamo amicissimi ma che consideravamo un po' una « testa matta», Caimi che ci scrisse una lettera furibonda per la esclusione e con cui ci riconciliammo poi durante la guerra, pochi giorni prima che, tenente degli Alpini al Battaglione Val Cismon del 7°, scomparisse in un'aureola di gloria — medaglia d'oro dalla motivazione leggendaria — alla conquista del Valderoa. Ma questa è storia da raccontare a parte, se mai.
 
L'importante è che perdemmo, quel giorno, il 29 giugno. Rientrando in città, sapemmo che pure la Svezia, padrona di casa, aveva perduto, essa pure nei tempi supplementari, contro la rivale diretta, l'Olanda, mezza squadra della quale constava di coloniali — gli occhi ed il colore della moglie di Wilkes. V'era un Torneo di Consolazione, alle Olimpiadi, allora. Ed ecco che, in esso, estraggono subito la Svezia come nostra avversaria, proprio la Svezia che, furiosa, anelava di lavare l'onta subita dagli olandesi. Ci diedero tutti per spacciati. 

La nostra formazione. Se dicessimo che la squadra allineata contro la Finlandia fu tutta 'nostra', diremmo una bugia. Eravamo alle nostre primissime armi, e ci entrarono un po' tutti. Fu una squadra un po' 'democratica'. Alla seconda prova ci impuntammo, e trovammo appoggio nei vercellesi presenti, cinque. Arbitrava l'olandese Willing. E si giuocò, il 1° luglio, a Rasunda, lo stadio che era già bello allora, ed ingrandito ora ospita i grandi incontri di Stoccolma. E fu la gran sorpresa. Battuti in partenza: vincitori in arrivo. Vincitori per uno a zero. 

Ricordiamo ancora tutto di quell'incontro.  La marcatura magistrale che Milano I fece al centro avanti Erik Borjesson, il padre, combinazione, di quel Reino Borjesson che gli svedesi volevano fino all'altro giorno allineare, nella stessa posizione, domenica a Firenze. La rete di Franco Bontadini al 30° minuto del primo tempo, il buon Bontadini, alpino del Val Cismon anche lui, sciatore emerito, che doveva pochi anni fa, non più giovane, suicidarsi per amore. Ed il rabbioso disappunto del pubblico. E la formazione, naturalmente: Campelli (Inter); Valle (Vercelli), De Vecchi (Milan); Binaschi, Milano I e Leone (tutti Vercelli); Bontadini (Inter), Berardo (Vercelli), Sardi (Doria), Barbesino (Casale) e Mariani (Genova). 

E la visita del capitano Bohoyen, la sera stessa ed il giorno dopo, colla richiesta scritta di una partita di rivincita, e le sue insistenze, e la resistenza nostra, di noi che alle prime armi anche in diplomazia calcistica, eravamo in difficoltà per dirgli di no senza offenderlo. E la nostra gioia, continuata, incontenibile. Era la nostra prima vittoria all'estero. 

E la 'paga' - come un gran richiamo alla modestia - ci diede l'Austria, due altri giorni dopo, allo Stadio Olimpionico, con un cinque a uno, di cui sentimmo a lungo il ronzio nelle orecchie!

[La Stampa, 8 novembre 1951, titolo: Sorto per caso il primo confronto]