Con tanta nostalgia di uno sport nobile

di Gianni Brera

Povero calcio, di noi povera gente: sport per eccellenza plebeo, proibito per secoli in quanto a praticarlo erano gli umili, troppo spesso confusi con i villani! Le plebi hanno preso quota nell'ordine politico-sociale delle nazioni e anche i loro gusti hanno finito per imporsi. Giocò a calcio in Italia anche un principe del sangue: e i suoi compagni erano quasi tutti nobili o grandi borghesi. Poi si accorsero che pedatare squalificava, nel Paese-guida dello sport moderno e passarono al golf, al tennis, rimanendo pur sempre alla scherma e all'equitazione. I pedatori furono allora di schiatta piccolo-borghese, e belli come poteva essere chi da qualche generazione pappava bistecca. Infine raggiunsero il plus-calore anche i poveri del quarto e quinto stato: e decadde la qualità ma crebbe il numero. 

Noi italiani siamo a questo punto. Gli inglesi, loro hanno incominciato a cedere un tantino nei confronti della pedata volgare. Decaduta la boria imperiale, bisognava consolarsi dov'era possibile. Il calcio ha preso quota allora anche presso i non indigenti (come da poco in Svezia e Danimarca), ma il relativo benessere del singolo cittadino ha consentito a troppi di spostarsi nelle vesti di pseudo-turisti. Erano spesso i fanatici a imbrancarsi: e tanto più feroci quanto peggiori erano le condizioni economiche del loro quartiere o della loro città. 

Ora la più decaduta tra le città inglesi è proprio Liverpool. E le sue due squadre eccellono come per una rivalsa che in altri campi non è possibile. I belgi hanno conosciuto l'Everton l'anno scorso e pareva non avessero altro da apprendere sui seguaci del Liverpool. Purtroppo hanno fatto penosissima cista. Il loro Heysel, un tempo onorevolissimo, è ormai insopportabilmente obsoleto. Ha le due curve in terra battuta con gradini sorretti da pietre malferme: in queste curve gli spettatori sono costretti a stare in piedi. Ammassare oggi folte moltitudini sugli spalti di curve senza posti a sedere significa esporsi a rischiose calamità pubbliche. Per loro disgrazia, i belgi hanno ottenuto dalla Uefa l'incarico di organizzare la Coppa Campioni. Sapevano di aver a che fare con orde di inglesi avvinazzati e feroci. Non hanno riflettuto però che gli spiantati liverpooliani non potevano competere con i ricchi juventini di tutta Italia, e che metà della curva destinata agli ospiti albionici sarebbe stata accaparrata - magari a borsa nera - dagli italiani. Così non hanno ritenuto i belgi di dividere più efficacemente i rappresentanti di due popoli l'uno all'altro inviso per troppo differenti destini passati e presenti. 

Alla tradizionale spocchia degli inglesi, il visibile benessere degli italiani doveva suonare come un'offesa patente, uno sberleffo tragico della sorte: dunque, ai più scalmanati non è parso vero di farla subito fuori. I pochi sparuti poliziotti belgi sono stati travolti. Gli italiani, prima sorpresi, poi atterriti, si sono ristretti fino a soffocarsi. 

I vecchi spalti interrati dello Heysel sono divenuti orrendo cimitero. Mortificati e stravolti, i belgi hanno taciuto lì per lì la tragedia, hanno chiamato allo Heysel tutta la polizia a disposizione nel regno: non è bastato. La partita, che pareva giocata per tacitare i manigoldi, si è risolta a favore della Juventus, il cui tripudio ha un po' stupìto dopo tanti decessi. Gli inglesi di Liverpool sono tornati alle loro tane, alla loro quotidiana mortificazione di paria. Gli italiani, fino a ieri sottovalutati e derisi, hanno meritato la sincera comprensione di tutti. Giorno verrà - non è affatto lontano - che il calcio perderà i suoi satanici sapori di transfert dalla degradazione e dalla miseria. Allora tornerà ad essere per molti quello che è sempre stato: il gioco forse più bello di tutti. Parola di un povero fra i tantissimi poveri di questo mondo.

La Repubblica, 31 maggio 1985

L'isola che non Guernsey

Football Miscellany

Il fatto che il capitano di marina William Colbin si districasse così egregiamente in quel perfido e brumoso corridoio di mare, faceva una certa impressione all’uomo seduto a bordo del battello a vapore, appartenente alla compagnia "Durande", partito da Saint-Malo alle sette in punto di quella mattina sotto un cielo nascosto dalla foschia. Dissolto l’ultimo velo di nebbia e superata l’ultima cresta d’onda, le scogliere dell’isola, a cui l’unico passeggero era destinato, incominciarono a mostrarsi insieme al minuscolo porto di Saint Peter con le sue casette di legno colorato, addossate, in un appiglio quasi morboso, alla vecchia torre normanna che fungeva da faro, dove illuminata dalla luce giallastra, intermittente e gassosa della lanterna, garriva lacerata dai venti una bandiera britannica.

Saint Peter

In breve l’imbarcazione attraccò al molo brulicante di pescatori intenti a rigettare in traballanti barchette le loro reti appena svuotate. Solo un signore, alto e ben vestito, sembrava attendere nervosamente l’arrivo del traghetto. Il 31 ottobre del 1855 un uomo dall'aria modesta e un po' trascurata con un faccione bonario ornato da una folta barba brizzolata sbarcava sull'isola di Guernsey per sfuggire alle patrie galere a causa della sua ferma e dura presa di posizione nei confronti della repressione voluta da Napoleone III. Incominciava l’esilio di Victor Hugo a Guernsey, un esilio lunghissimo, durato ben quindici anni.

Guernsey è un’isola strana: gli abitanti sono inglesi senza volerlo e francesi senza saperlo. E tuttavia, se casomai qualcuno di loro lo intuisse ci terrebbe a dimenticarlo in fretta. Politicamente il territorio è un protettorato della Corona inglese, seppure si trovi molto più vicino alla costa francese. Insieme alle consorelle del comprensorio gode di un ampia autonomia giudiziaria e amministrativa. Ha perfino un parlamento, un bilinguismo storicamente accettato e un proprio conio che imprime sulla moneta il profilo austero di Elisabetta ma vi scrive accanto: State of Guernsey. Gli isolani inoltre, da antico decreto legislativo, non possono essere chiamati a prestare sevizio militare a meno che la suddetta Regina in persona non venga catturata oppure l’Inghilterra invasa. Che dire? Al di là di qualcuno che possa progettare il sequestro di Sua Maestà, dopo la sfuriata vincente di Guglielmo, gli altri tentativi più o meno accertati da parte di Bonaparte e Hitler sono naufragati e allora, adesso, diciamo che sull'isola dormono sonni abbastanza tranquilli. Insomma luogo bizzarro questo, che si dibatte da secoli fra "Yes" e "Oui" mentre i suoi scogli si allargano e si restringono ogni sei ore per l’influsso delle alte e basse maree.

Guernsey è un pezzettino di Francia perduto in mezzo alla Manica raccolto dall’Inghilterra attraverso trattati e donazioni. Un pezzettino di terra dal clima talmente infausto che ogni tanto sul campo da calcio di Footes Lane volteggia un elicottero per agevolare l'asciugatura del terreno ridotto ad acquitrino dalle piogge. Successe per esempio il 23 marzo del 2013 quando il Guernsey Football Club ospitò, nella gara d'andata della semifinale del "Vase", lo Spennymoor Town, sceso dalla lontana contea del Durham. Non andò particolarmente bene, i "moors" si imposero per 3-1 e solo ad onor di bandiera contò la rete del provvisorio pareggio siglata da Dominic Heaume che aveva fatto esultare i 4290 accorsi intorno al rettangolo del Lane nella speranza di un memorabile viaggio a Wembley. A nulla valsero sogni e utopie rivolte alla partita di ritorno lassù a 500 miglia da casa, dove arrivò un'altra sconfitta, seppure di misura, per il Guernsey capitanato da Sam Cochrane.

Footes Lane in un gradevole e limpido pomeriggio

Il Guernsey Football Club è società di recentissima fondazione, nonostante si abbiano notizie ufficiali di un pallone che rotola sull’isola già dal 1893. Nel 2010 la conquista della UEFA Regions Cup da parte della rappresentativa locale stimolò la creazione di una squadra che partecipasse ai campionati inglesi e un anno più tardi, grazie alla collaborazione dei fratelli Matthew e Mark Le Tissier (l’ex idolo del “Dell” di Southampton è nato sull’isola nell’ottobre del 1968), ecco i "Green Lions":  nel giro di qualche stagione scalano un paio di gradini e oggi sotto la guida tecnica di Tony Vance giocano nella Isthmian League Division One South. Matthew Le Tissier è stato presidente fino al 2014, poi ha passato il testimone a Mark.

Quest’anno la squadra si è salvata con qualche patema d’animo di troppo, in ogni caso il prossimo 27 maggio in occasione della finale di FA Cup un dirigente del Guernsey è stato invitato a sfilare nel pre-partita perché per la prima volta nell'ultracentenaria storia della competizione una delle partite si è svolta su un’isola (certo pure il Regno Unito è a sua volta un’isola tuttavia non formalizziamoci troppo, ci siamo capiti...) anziché sulla terraferma.

E’ successo lo scorso agosto in occasione di uno dei tanti match preliminari di questo torneo, quando i verdi hanno giocato contro il Thamesmead Town. A rappresentare il Guernsey ci sarà proprio Sam Cochrane che è stato non solo, come detto, il capitano dell’avventura nel Vase di quattro anni fa ma anche colui che ha posto la sua firma sul primo contratto stampato dal club.

Simone Galeotti

Sam Cochrane

Il Milan come Dorando Petri (20 maggio 1973)

Sembrava si stesse riaprendo un ciclo, dopo cinque anni. La vittoria della Coppa Italia, e la stagione successiva scudetto e Coppa delle coppe. Poi, chissà. Ma la sequenza si interrompe bruscamente a Verona, il 20 maggio 1973. Niente scudetto per il Milan, e niente stella. Una delle più infauste domeniche della storia rossonera: raccontata da Gianni de Felice, prima firma sportiva al Corriere della Sera.


Verona, 20 maggio
Senza discussione, senza attenuanti. Il Milan ha regalato in una penosa, drammatica, umiliante partita un campionato che lo aveva visto quasi ininterrottamente nelle prime posizioni della classifica, e uno scudetto che per due volte, lungo l'arco di questa tormentata ma affascinante stagione, era parso ben saldo nelle sue mani. Nel volgere di pochi minuti, un Milan vuoto, molle, sbandato, annichilito dalla sua stessa pochezza ha incredibilmente bruciato mesi di ammirevoli prestazioni, valanghe di gol e di applausi, vittorie entusiasmanti; e ha reso irrimediabilmente vana la rabbiosa reazione con cui aveva risposto alla sfortunata trasferta romana con la Lazio. Nel volgere di pochi minuti si sono dissolte nell'illanguidente tepore di questo pomeriggio veronese le speranze, se non addirittura le certezze, dei rossoneri e dei loro tifosi; si sono dissolte, ormai inutili, le belle partite che avevano condotto il Milan al comando della classifica e le generose battaglie che ce lo avevano in questi ultimi tempi mantenuto.
Lo sport è fatto di gioie indicibili, di trionfi esaltanti, ma anche di amarezze tristissime come questa. Al fondista o al ciclista che ha tirato sempre in testa una lunga e massacrante corsa, può accadere di crollare sfinito e inebetito dallo sforzo un metro prima dello striscione di arrivo. Ed esattamente questo è accaduto al Milan oggi. Il suo doloroso destino ricorda la lontana e patetica vicenda del maratoneta Dorando Petri, ormai entrata nell'antologia, nella leggenda, diciamo pure nella retorica dello sport. E ricorda anche tante volate drammaticamente perse sul filo di lana, tante medaglie olimpiche mancate per un'unghia. Ma le leggi dell'agonismo, per quanto spesso beffarde e talvolta addirittura crudeli, vanno lealmente accettate. Questo asperrimo campionato, chiacchieratissimo e invelenito da mille polemiche, ha in fondo avuto una conclusione "sportiva". Una conclusione che resterà nella storia del calcio: così come rimase quella del 1967, quando, alla stessa maniera del Milan, fu l'Inter a perdere lo scudetto e, alla stessa maniera di adesso, fu la Juventus a vincerlo.
Forse queste sono le meste riflessioni dei venticinquemila tifosi milanisti che sin dalle prime ore del mattino avevano invaso Verona e che avevano gremito i due anelli dello stadio scaligero, trasformandolo in due brulicanti corone di vessilli rossoneri. Corone traboccanti di gente e di entusiasmo, che dovevano cingere idealmente la testa del Milan campione, che dovevano celebrare la festa dello scudetto più ambito: il decimo della storia milanista, quello della stella. E invece, ora che Monti ha fischiato la fine dopo il gol di Bigon, il terzo ed ultimo messo inutilmente a segno dal Milan, lo stadio è muto. Col passare dei minuti, con il lento ed inesorabile consumarsi di questo dramma sportivo, lo sgomento ha rubato sempre più spazio al tracotante entusiasmo dell'inizio nel cuore dei tifosi milanisti. In una curva sventola un grappolo di bandiere giallo-blu, i colori veronesi. Altrove, è soltanto silenzio. E l'unica corona, ormai serto di alloro rinsecchito, è quella che tutt'intorno al bordo del fossato fanno le bandiere milaniste lanciate dal pubblico con amaro e deluso dispetto.
Migliaia di vessilli rossoneri con la stella giacciono come stracci ai bordi delle gradinate. Mentre i giocatori escono dal campo stravolti. Mentre i dirigenti abbandonano avviliti la tribuna d'onore. Mentre Rocco, seduto alle nostre spalle, impietrito e con gli occhi persi nel vuoto, passa e ripassa una lingua che sa di fiele sulle labbra inaridite dalla tensione e dal dolore. Da due minuti è giunta la notizia del gol vincente di Cuccureddu. E' la fine.

* * *

Come è potuto accadere? In che modo il Milan ha letteralmente buttato un campionato che da tempo era virtualmente 'suo'? Come si può spiegare questa catastrofica sconfitta? Il compito del cronista è tristemente facile.
Primo: Schnellinger non ha potuto giocare, essendo stato negativo il provino sostenuto mezz'ora prima dell'incontro, e il suo posto lo ha preso Turone che ha confermato in pieno la mediocrità tecnica già denunciata mercoledì a Salonicco; Turone ha rappresentato la più grossa falla di una difesa male organizzata, dando un'ulteriore dimostrazione del peso che l'esperienza di Schnellinger ha sempre avuto in questo reparto del Milan. Secondo: la squadra ha evidentemente accusato la fatica e i postumi della durissima battaglia con il Leeds, rivelandosi quasi completamente priva di forza e di nerbo: neanche dopo essersi trovato in svantaggio il Milan ha reagito con il vigore che, in una circostanza come questa, era lecito aspettarsi; il caldo ha, da parte sua, aggravato questa lacuna e il verona, fresco, agile, volitivo, ne ha crudelmente ma molto onestamente profittato, facendo fino in fondo il suo dovere. terzo: a risentire maggiormente del generale calo di tono fisico sono stati i milanisti meno atleticamente dotati, come Rivera e Chiarugi, cioè il regista e il più efficace risolutore della squadra; ad essi bisogna aggiungere Bigon, che da alcune settimane soffre di bronchite. Quarto; le fatali disattenzioni di Benetti e di Sogliano nel marcare Bergamaschi e Sirena hanno avuto conseguenze determinanti: è tuttavia necessario sottolineare anche la inutilità della posizione di Rosato e Zignoli, rimasti a fare i mediani a centrocampo senza che però si prendessero minimamente cura degli interni veronesi Mascetti e Mazzanti.
A questo punto è doverosa una spiegazione. Benetti e Rosato sono stati fra i milanisti quelli che più hanno corso e sgobbato per tenere in piedi una squadra, visibilmente spaccata in due dalle velleità offensive degli attaccanti e dalla necessità di proteggere in qualche modo una difesa sgangherata, costantemente in affanno contro Bergamaschi, Luppi e Zigoni. Ma nonostante la loro buona volontà, né Benetti né Rosato hanno mai validamente arginato nella loro zona le puntigliose offensive veronesi. Il Milan è partito con Sabadini stopper su Luppi (una sciocchezza: perché rinunciare ad un risolutore come lui?) e Anquilletti su Zigoni. Rosato e Zignoli stavano in linea come mediani, senza marcare nessuno: perciò, il Verona poteva tranquillamente superarli in velocità. Ci sono voluti tre gol perché i collegamenti tra Rocco in tribuna e Trapattoni in panchina funzionassero e perché il Milan correggesse il suo assetto, mandando Sabadini a fare l'ala destra, arretrando Sogliano a metà campo e incaricando Zignoli di prendersi ruvidamente cura di Luppi.
Ma al di là di tutte queste osservazioni tecniche e tattiche, una piccola sfumatura psicologica ha avuto, a nostro parere, un'importanza straordinaria. Questa: il Milan è sceso in campo sicuro della vittoria, convinto di poter ripetere l'impresa di Salonicco facendo valere la sua superiorità tecnica. Difatti, ha cominciato l'incontro al piccolo trotto, come se si trattasse di una innocua amichevole. E non si è disperato neppure molto quando, dopo nove minuti, Rivera ha frettolosamente sprecato un lancio di Benetti, tirando da pochi passi un parabilissimo rasoterra centrale.

* * *

Questo è l'avvio del Milan. Si continua così, allo stesso fiacco ritmo fino al 18°. Chiarugi è fischiato per un lancio vistosamente fuori misura. Turone si esibisce in inutili incursioni. Una di queste procura una punizione, che la barriera respinge. L'azione di rilancio veronese si dipana sulla destra. Zigoni avanza; dribbla Anquilletti, poi schiva il goffo intervento di Turone: il suo cross sorvola Vecchi, raggiunge Sirena che, liberissimo, lo devia di testa nella porta vuota. Sorpreso da tanto ardire del Verona, il Milan si smarrisce. La difesa ne combina di tutti i colori. Rivera viene fischiato per un grosso errore di lancio. La speranza del pareggio è viva, ma dura poco. Al 26° Bergamaschi lancia a Busatta, che supera Sabadini e tira di sinistro su Turone, scivolato a terra: la palla viene respinta verso Luppi, il quale dal limite chiude gli occhi e spara: Sabadini devia appena di destro e manda il pallone sotto la traversa. Due a zero. Non passano tre minuti e il Verona segna ancora. Tunnel di Bergamaschi (dove sei Benetti?) a Turone, quindi breve cross da sinistra per Luppi che in corsa batte imparabilmente Vecchi.
Il Milan è finito. La sua resa è evidente. Rosato al 34° insacca a parabola, raccogliendo una respinta di Mascalaito. Il gol riaccende un barlume di speranza. Monti risparmia ai rossoneri un rigore per sgambetto di Zignoli a Luppi. All'inizio della ripresa l'annuncio che la Juve perde e che la Lazio pareggia dà ancora una scossa alla partita.
Ma il Milan non è in grado di sfruttarla, il Milan non c'è. Chiarugi manca una palla-gol al 17°. poi sono soltanto cannonate di Benetti quasi tutte fuori. E' invece il Verona ad insistere, con incredibile autorevolezza. Luppi dribbla Zignoli davanti alla porta al 25°, lo aggira sulla destra e da pochi passi in diagonale batte il povero Vecchi. Siamo a quattro. Il conto salirà a cinque tre minuti dopo: un lungo tiro di Busatta è deviato da una gamba di Turone. Vecchi, schiacciato, incassa, portandosi con disperazione le mani al volto. Si ha notizia del pareggio della Juve. Ora le tre squadre in lotta epr lo scudetto sono a pari punti. Il Milan può ancora sperare negli spareggi. Sabadini segna di testa al 37°. Poi arriva la notizia del gol di Cuccureddu. Nessuno applaude la rete du Bigon, che chiude al 91° lo sfortunato campionato del Milan. Ora è davvero finita.

[Gianni De Felice, Corriere della Sera, 21 maggio 1973, p. 11]

Il servizio della Domenica Sportiva
Tutto il calcio minuto per minuto

Una vigilia agitata

A poche settimane da una famosa tornata di elezioni politiche, finalmente il 17 maggio 1953 a Roma si inaugurava il nuovo, grande stadio. Lo 'Stadio dei Centomila', ma già 'Olimpico' in vista della possibile assegnazione dei Giochi del 1960 (che arriverà il 15 giugno 1955). La sua storia inizia con una partita di calcio: Italia-Ungheria. Sì, gli azzurri opposti al peggiore avversario che si potesse immaginare in quel momento. Fu una vigilia agitata. Da cosa? Dalla caccia al biglietto. Svoltasi in una confusione tipicamente 'romana', secondo la stampa del Nord. E il racconto (spassoso: perciò merita di essere riproposto) di quella vigilia si prese addirittura la prima pagina de 'La Stampa', il 17 maggio. 


Roma, 16 maggio
La frenesia sembra essersi impossessata di Roma in questa che i giornali della sera definiscono 'agitata vigilia sportiva'. L'imminenza del 'match' fra i calciatori azzurri e gli ungheresi, l'inaugurazione del nuovo grande stadio, le carovane di 'tifosi' che giungono da Nord e da Sud assalendo gli alberghi, le voci sul bagarinaggio dei biglietti (30 mila lire per un posto di tribuna), le discussioni dei tecnici improvvisati agli angoli delle vie: tutto ciò finisce con l'inserirsi come un vasto impensato elemento corale nella atmosfera già cosi tesa della battaglia politica e dei comizi: il clamore si aggiunge al clamore, "Fratellanza tra i popoli", grida dai muri un manifesto comunista che raffigura l'abbraccio fra un atleta magiaro e uno italiano. 
I romani rimasti senza biglietto per la partita non hanno saputo (o potuto) raccogliere l'invito della fratellanza neanche sul piano più modesto della concordia municipale. Quello che è accaduto stasera agli sportelli del vecchio Stadio Torino, dove in extremis la Federazione Gioco Calcio ha posto in vendita alcune migliaia di posti di curva, è tipico di un entusiasmo sportivo che non si arrende al civismo, o di una mentalità burocratica digiuna di psicologia: i romani non sopportano le file, i biglietti sono stati gettati in pasto alla loro fame senza nessuna preoccupazione d'ordine: le resse dinanzi agli sportelli sono cresciute, degenerando in tumulti; una folla impazzita (c'erano forse ventimila 'aficionados') ha schiamazzato a lungo sul piazzale tentando di prendere d'assalto le guardiole dei cassieri: la polizia a cavallo ha caricato i riottosi con slancio. Si sono avute le più memorabili, urlanti scene di panico di questi ultimi anni, ben più paurose di quelle che movimentarono Piazza Colonna per le manifestazioni contro il Patto Atlantico: la folla non aveva scampo, i cavalli si impennavano sui fuggenti. Ci sono stati due feriti e una trentina di contusi, alcuni dei quali in modo piuttosto duro; la vendita dei biglietti è stata interrotta. 
Con pompa serena invece le autorità religiose e laiche hanno proceduto ad una 'prima inaugurazione' dello Stadio Olimpico. Stamattina Pio XII aveva benedetto la bandiera del CONI e la medaglia commemorativa dell'avvenimento, rivolgendo un discorso ai veterani dello sport (85 campioni olimpionici e 31 campioni dcl mondo), fra cui il quasi novantenne maestro di scherma Agesilao Greco e il vecchio, cieco lottatore Raicevich. "Desideriamo anzitutto congratularci — egli ha detto — con quanti, superando non lievi difficoltà e dopo lunghe vicende, hanno condotto a termine un'opera ben degna di inserirsi per le sue dimensioni nella tradizione del grandioso e del bello proprie della Roma di ogni tempo e che risponde — come ci è stato riferito — alle esigenze più moderne di simili costruzioni".
"Mentre pertanto bene auspichiamo all'opera vostra e ci apprestiamo a benedire la bandiera del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, leviamo la nostra preghiera all'Altissimo affinché il nuovo stadio serva efficacemente al miglioramento fisico e morale del popolo e particolarmente della diletta gioventù romana; che ogni qualvolta le moltitudini traboccanti dal suo ampio abbraccio lo trasformeranno in un'aiuola fremente di vita contribuisca a rinsaldare il senso della concordia di cui è espressione: e finalmente soprattutto che in ogni circostanza lo stadio olimpico non cessi di cantare con le voci della presente e delle future generazioni la gloria di Dio". 
Terminato il discorso, il Pontefice ha appuntato sulla nuova bandiera olimpica la medaglia d'oro con la sua immagine. 
Nel pomeriggio, presente il sottosegretario Andreotti, il cardinale Micara, vicario di Roma, ha benedetto lo stadio nuovo. "Consacrarlo domani con l'acqua santa dinanzi agli atleti di un Paese ufficialmente marxista avrebbe avuto l'aria di un esorcismo contro i nostri avversari", è stato argutamente detto. Quanto a costoro, che poi non sono che ragazzi mal vestiti, dall'aspetto ingenuo, sebbene l'arcigna Costituzione magiara li classifichi quali 'difensori di Stato', hanno preso parte stasera ad un ricevimento nella sede de L'Unità, intrattenuti e festeggiati dalle alte cariche comuniste. I giovani ungheresi apparivano stupiti e perfino depressi per lo scalpore che vanno suscitando: "Quella dì domani, in fondo, non è che una partita di calcio — commentava uno degli atleti, non senza saggezza — fra due giorni nessuno ne parlerà più".

[La Stampa, 17 maggio 1953, articolo firmato da C. L.]

Vedi anche Costruzione e inaugurazione dello Stadio Olimpico (Eupallog Santuari) e la documentazione sulla partita (Eupallog Cineteca)

Da Superga fino al trionfo


16 maggio 1976. "Ultima di campionato, non tutto è deciso. Il Toro ha una sola lunghezza di vantaggio e una partita apparentemente facile, in casa; la Juve una partita apparentemente facile, fuori casa. Cesena e Perugia possono già programmare le vacanze, non hanno più traguardi da conquistare. Ma si battono onestamente. Primi tempi in bianco. Secondo tempo. Renato Curi (già) infila Zoff; passano pochi minuti e Puliciclone schioda la sua partita. Mozzini (autorete) rimette tutto in discussione. Se la Juve rimonta e vince, è spareggio. Rimane il se. Lo scudetto va a quelli che l'hanno meritato. Per un solo giorno, il rumore dello schianto di Superga è coperto da frastuoni festosi e la città torna ad avere anche altri colori" (Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera, p. 130).
A bene illustrare il significato del titolo granata, per i lettori di 'La Stampa', ci pensò il solito, magistrale Giovanni Arpino


Cosa significa questo nuovo, trionfale scudetto torinese? Cosa vogliono dire tanti stendardi, trentamila garofani all'occhiello, gli infiniti fiocchi granata che adornano fin da sabato notte la città, dalle nobili ombre dei portici al balconi della periferia? E cosa ci vogliono far capire i balli, gli abbracci, le estemporanee invenzioni, sia in piazza San Carlo sia nelle province piemontesi, con corse di tori, sbandieramene e brindisi? 
Pare un paradossale «compromesso storico» dedicato al pallone. La sede del club di Orfeo Pianelli è piantonata giorno e notte dai fedeli come se si trattasse di un tempio dedicato a Minerva. E gli echi, le ripercussioni di questo stato d'animo dureranno a lungo. Ma cosa ci trasmettono, e perché? 

Non basta rifarsi alla tragedia di ventisette anni fa, al rogo di Superga, alla lunga attesa delle tribù granatiere. Questo scudetto tinto di vermiglio, i fiori all'occhiello di tante persone costituiscono - seppur in modo inconscio - una rivincita prettamente torinese, piemontarda in ogni millimetro di osso e di midollo, in ogni goccia di sangue per ogni vena.
Perché la Juventus è universale, il Torino è un dialetto. La Madama è un «esperanto» anche calcistico, il Toro è gergo. E qui il peso del campanile trova finalmente sfogo, piedestallo, unicità espressiva, anche se l'immagine della squadra granata è amata per quanto seminarono, tanto tempo fa e in ogni luogo d'Italia, i gol e i lutti dei Valentino Mazzola e dei Maroso.
Oggi, Torino granatiera gode. Clamorosamente. Ma si chiude anche a versare una lacrima di commozione, nel groppo di tanta gioia, nel rilassarsi di tante tensioni. E si parla di calcio, di Pulici o Castellini o Claudio «poeta pelotero» solo per dar realtà a un sogno troppo vasto, quasi inabbracciablle. 
Uno può davvero ancorarsi a due poli nella vita: il giorno segnato 4 maggio '49, quando arrivò il fulmine mortifero di Superga e precipitò in lutto il Paese, e questa domenica, sofferta e goduta. Un ciclo si è chiuso per cominciare a crescere in ultra forma. 
Nessuno dubita sui meriti del Torello di Radix, generale gelido. Più del mito che anni fa crebbe ma anche dilaniò la squadra di Giagnoni, ha potuto il realismo del nuovo staff. Partito per trovare una propria dimensione definitiva, per autopianificarsi in vista dell'immediato futuro, il Toro di Gigi Radice è cresciuto da se stesso, così come il suo presidente Orfeo Pianelli, uomo «venuto dal presente», desiderava da tanto. Fino a scrivere nel gran libro del campionato, a caratteri rapidissimi, le tappe del derby, del riaggancio, del sorpasso: capitoli che passano con furia dalla storia recente alla leggenda tifosa, commossa e trepida e vera.  
Alla magna Juventus, che giocava il suo calcio generoso ma anche barocco, con punte di dispendio che vorremmo definire «liberty», il Torino dei «gemelli» , di Claudio, dell'ironico Pecci «Piedone» ha risposto con geometrie violentissime e probanti (tanto da spingermi a usare la definizione «Sturm und Drang» perché quel romantico assalto da  «tempesta e passione» sull'erba di un prato traduceva le attese degli appassionati in mosse giocoliere così rare in Italia). Qui sta la differenza tecnica, se vogliamo, e qui i diversi meriti di una annata di calcio italiana che ha visto tutti gli altri far da pallide comparse.

L'urto che la vittoria granatiera porta al mondo della nostra pelota è altamente positivo, propizio e da imitare. Una strada «globale» ma casalinga, senza inutili millanterie olandesi o teutoniche. Ed è una vittoria che farà del bene ulteriormente alle due società, ai loro diversi popoli sostenitori: perché cancella di colpo quei residui di vittimismo e di doloroso rimando che travagliavano l'animo granata; perché consente al club cugino e avversario di iniziare qualche mossa di rinnovamento; perché questo stesso club bianconero, perdendo seppur da «secondo» l'ennesimo titolo, scavalca di un balzo tutte le menzognere campagne contestatone che lo hanno assillato per almeno due anni; e perché, infine, un Torino di questo stampo, in una prossima Coppa Campioni, sarà squadra da vedere, con curiosità e responsabilità di giudizio. 
La festa grande non abbisogna di spiegazioni ulteriori: è un risultato, un traguardo di per sé. I vari mediconi della critica sportiva ora si chineranno a scrutare e diagnosticare tanti «perché». Lasciamoli fare: tanto non parlano il nostro dialetto. Limitiamoci a constatare questa legge: che almeno nello sport talvolta vince il migliore. La gioia popolare parte anche da qui.

Giovanni Arpino
[La Stampa, 17 maggio 1976, p. 3]

Due unità di eletta classe

Le cronache di Monsù
13 maggio 1933

Il primo confronto diretto tra gli azzurri e la nazionale inglese dovette stuzzicare tantissimo il nostro commissario unico, che conosceva benissimo il loro calcio. Era stato a lungo di casa a Londra frequentando Highbury, conosceva benissimo Chapman, dal quale, apprese moltissimo sui metodi di conduzione di una squadra. E Chapman era a Roma, per la sfida tra italiani e inglesi: "nelle pause del mio lavoro per la squadra o per il mio giornale, specialmente a sera, ci trovavamo. E la facevamo lunga". A sorpresa, il grande manager dell'Arsenal era negli spogliatoi prima della partita. Non aveva nessun incarico per la Football Association, cosa ci faceva lì? "What are you doing here?", gli chiede Monsù. "I am doing for my country what you do for yours". L'accortezza del gioco inglese, cui Pozzo dedica tutta la prima parte del suo resoconto, gli fece sospettare la presenza "di un uomo dall'occhio esperto che, dal di fuori, aveva visto e consigliato" (Campioni del mondo, pp. 234-237).


Roma, 13 notte. 
L'incontro con l'Inghilterra si è chiuso alla pari; l'Italia mancò la vittoria per un soffio. L'incontro fu una battaglia accanita e corretta nello stesso tempo; il tono della battaglia fu impresso al gioco non dagli italiani, come molti si potevano attendere, ma dagli inglesi, i quali giocavano per il risultato, esclusivamente per il risultato, sacrificando ad esso ogni amore alla scienza, ogni considerazione di estetica e molti aspetti tecnici del lavoro della Squadra. Certo la compagine che l'Inghilterra aveva inviato a Roma era essenzialmente basata sulla combattività, sulla velocità, sulla volontà di vittoria: invece di essere composta di artisti del gioco, di elementi ligi ai canoni tecnici consuetudinari, di uomini capaci di grandi finezze, la squadra trovava la sua ragione d'essere nel desiderio di lottare. La sua forza di propulsione essa la cercava nel brio, nel fuoco e nell'ambizione di salire e di distinguersi dì parecchi giocatori nuovi agli onori internazionali. 

La combattività degli inglesi

Il funzionamento dell'undici fu quindi conforme alla sua costituzione: il corpo funzionò secondo il sangue che aveva nelle vene. Fu la squadra ospite che fece uso della robustezza e del peso del corpo, fu essa che giocò alto in prevalenza; fu essa che ricorse essenzialmente alla velocità ed alle lunghe puntate in avanti. Stile di attività, come lo si vede dal campionato inglese di questi ultimi anni, quello praticato a Roma. La bellezza tecnica del gioco ne ha indubbiamente sofferto molto, ma ha guadagnato lo spettacolo dal punto di vista dell'esibizione di forza e vigoria fisica. Ammirevole vigoria, invero, quella spiegata dagli uomini in maglia bianca! Essi ricorsero senza economie o falsi scrupoli alle armi della robustezza: cariche forti, ma schiette, eseguite spalla a spalla, sgradevoli a subire, ma corrette. Combi, il portiere nostro ad esempio, non toccò quasi pallone senza che il centroavanti inglese tentasse dì caricarlo. Col gioco alto a cui ricorsero, gli inglesi emersero nel gioco di testa. Classico modo di saltare, tocco preciso dall'alto in basso, scelta esatta del tempo per l'intervento. Col tono di velocità che impressero al gioco, emersero nello scatto. Grazie alla fulminea prontezza nel mettersi in movimento, venne a galla una capacità di smarcamento impressionante. 
Le condizioni fisiche dei giocatori erano tali che l'incontro venne terminato alla stessa velocità a cui era stato iniziato: gli uomini ressero allo sforzo da cima in fondo all'incontro senza dar segni visibili di fatica. Al vederli giocare nel secondo tempo, costretti nella loro metà campo, ma inflessibili nel loro lavoro, il pensiero correva involontariamente all'incontro Inghilterra-Austria disputatosi a Stamford Bridge sei mesi or sono. Allora, al secondo tempo la squadra inglese cessò quasi di esistere come lavoro fisico: la loro squadra, creata per far della tecnica, quando non ne poté più fare non seppe combattere, si sconvolse. E la constatazione che ne emergeva e che tuttora trova conferma a pensarci su con maggior ponderazione, è che l'ostacolo che si contrappose agli italiani sia stato notevolmente più difficile di quello con cui ebbero a lottare a loro tempo gli austriaci. 

Una fortissima difesa

Bel terzino destro, il capitano Goodall fu uno dei migliori uomini in campo. Tenace, sicuro, volitivo, egli fu collaudato appieno da quello che nella giornata fu la parte migliore del nostro attacco, il settore di sinistra. Hapgood, il difensore di sinistra, scapitò alquanto nel confronto. White, il centro mediano, cominciò giocando in posizione relativamente avanzata; non appena gli italiani ebbero segnato il loro punto, egli si rifugiò nella posizione arretrata quasi di terzo terzino, certo di puro difensore, che è di moda attualmente in Inghilterra, e da quella più non si mosse che per qualche spunto nel periodo finale del primo tempo, quando gl'inglesi dominarono. 
Ottima è viceversa l'impressione relativamente ai due mediani laterali, due stilisti della corsa, due padroni della palla che furono i veri iniziatori di tutte le azioni offensive condotte dalla squadra ospite. 
Nel considerare però il gioco dei reparti arretrati inglesi, non occorre soffermarsi né su White né su Goodall né su Strange, ma sul blocco che tutti questi uomini presi assieme formarono. Un vero blocco nel senso materiale e morale della parola. Un blocco contro cui l'attacco italiano non riuscì — anche per debolezze proprie intrinseche — a spuntarla. Era gioco di posizione, del più bello, quello che questo blocco praticava. Un uomo si muoveva, e gli altri si piazzavano; un avversario eseguiva una mossa e l'intero sistema si spostava, intercettava, copriva. Fu quella la vera forza della squadra inglese: quella che la salvò dalla sconfitta.
Dell'attacco inglese e più difficile parlare. Gli attaccanti esistono per attaccare, e dì vero gioco d'attacco fra gl'inglesi uno solo ne praticò, l'ala sinistra Bastin. Il rimanente, o fece lavoro di metà campo, o tentò inutilmente di sfondare a mezzo di sistemi primitivi. 

Il successo sfiorato 

Contro questa squadra, gli "azzurri" giocarono con grande impegno, riuscirono a periodi a raggiungere il loro più alto livello dì rendimento, ma nell'assieme furono come frenati da circostanze contingenti. Avrebbero dovuto e potuto vincere. L'andamento del gioco fu tale da pienamente giustificare ogni aspirazione alla vittoria. Nel primo quarto dora essi travolsero l'.avversario. Partendo a velocità indiavolata, precisamente come avevano fatto otto giorni prima a Firenze contro la Cecoslovacchia, essi presero l'iniziativa e fecero sì che l'intera compagine inglese fosse costretta a lottare coi denti, calciando comunque e dovunque pur di difendere e di allontanare il pericolo. 
In quel periodo gli "azzurri" avrebbero dovuto vincere la gara: le situazioni favorevoli presentatesi furono tante che essi avrebbero potuto con facilità assicurarsi un margine sostanziale di punti prima che i "bianchi" d'Inghilterra si fossero ripresi. Fu un po' col favore del vento che i "bianchi" si ripresero. E fu anche col favore di un probabile fuori gioco che essi pareggiarono. 
Bastin, l'ala sinistra, quando ricevette la palla dal compagno di mezz'ala Furness, stava davanti a questi di circa due metri e si trovava al di là della linea dei terzini di circa quattro metri. Il fuori giuoco, secondo l'arbitro, e i guardalinee, non poté venire concesso perché al preciso istante in cui l'azione si sviluppò Bertolini, all'altro estremo della porta, già stava accorrendo in posizione arretrata. Comunque, fuori giuoco o no, al momento iniziale dell'azione vi fu errore di intervento e di intesa fra gli uomini nostri. Fu quello il solo svarione commesso dalla nostra difesa in tutto l'incontro. Esso ci costò caro. Dall'ottenimento del pareggio stesso gli inglesi attinsero animo. Tutta la seconda parte del primo tempo fu a loro vantaggio. Il vento soffiava forte a quel momento e li sospingeva e aiutava. Fu quello il periodo migliore per gli ospiti. I quali, comunque, non riuscirono a segnare, non solo, ma nemmeno a far maturare una situazione veramente meritevole di successo. 
La ripresa, viceversa, ebbe un colore solo: colore azzurro. Gli italiani presero l'iniziativa e, rari sprazzi a parte, non se la lasciarono più sfuggire. Su 45 minuti del secondo tempo, i nostri dominarono, in un modo o nell'altro, per circa 35. Ma era più energia, volontà e impegno che non gioco veramente efficace. Alcuni uomini della squadra non davano il rendimento solito. Meazza faceva del suo meglio, ma non era il vero Meazza, quello che nelle circostanze che si stavano verificando avrebbe potuto da solo mettere al sicuro il risultato della giornata. Lo stesso dicasi di Costantino. E Schiavio era tenuto d'occhio dal centro mediano White, che aveva rinunziato a ogni altro compito, pur di neutralizzare il bolognese. Da parte loro, Ferrari e Orsi non ricevevano lavoro a sufficienza. È così, malgrado la supremazia, malgrado le situazioni favorevoli, il tanto desiderato punto della vittoria non doveva arrivare e non arrivò. 

I vari reparti

In tutto il secondo tempo, detto per inciso, Combi non ebbe un solo pallone pericoloso da parare. La difesa italiana fu salda, senza lasciare però l'impressione di imbattibilità lasciata contro i cecoslovacchi. Combi non ebbe lavoro di difficoltà. Fu continuamente importunato, ma un tiro solo degno del nome venne nei novanta minuti indirizzato al rettangolo da lui difeso. Della linea mediana, il più continuativo fu Bertolini, che resse da cima in fondo, e che non lasciò alcuna libertà di azione a Geldard. Piziolo cominciò in modo incerto e terminò molto forte. E Monti, posto di fronte a un compito dei più difficili, quello di lavorare nel vivo del settore in cui l'avversario svolgeva quel compito di piazzamento che fu la sua vera, forza, si comportò lodevolmente. 
Era difficile giuocare contro gli inglesi oggi. Erano difficili da battere. Per dirla nell'opinione dell'arbitro Bauwens, gli inglesi presero oggi per la prima volta veramente sul serio un incontro sul continente e per la prima volta, invece di fare delle esibizioni e di mostrare della noncuranza, lottarono. Per riflettere la situazione con le parole del capo della comitiva inglese Kingswott, proprio oggi i giuocatori dalla maglia bianca, proprio in questa loro prima occasione di serio combattimento, videro negli occhi lo spettro dello sconfitta. 
Certo è che se uno dei due contendenti può lamentarsi di non essere stato fortunato, questo è l'italiano, che dominò, che si procurò e si vide sfuggire occasioni di segnare in proporzioni notevolissime. 
Fu, per gli "azzurri", un vero peccato che essi non abbiano potuto chiudere la stagione con una vittoria. Si trattava per essi di un successo meritato: si trattava di confermare un primato europeo. Peccato, dicono i nostri. Grazie, dicono gli inglesi, che si dichiarano soddisfatti dell'esito della giornata e che lasciarono il campo con rispetto per il valore del calcio italiano.

[La Stampa, 14 maggio 1933, p. 5]

Per la documentazione filmata sul match, si veda in Cineteca

Decollo italiano (11 maggio 1930)


Il campionato, il primo a girone unico, non è ancora prossimo alla conclusione. Siamo ai primi di maggio (si tirerà fino a luglio), e l'Ambrosiana - un po' a sorpresa - capeggia la classifica. Juventus e Genoa (anzi: Genova) inseguono, a distanze ancora colmabili. Il 4 vanno tutte e tre in trasferta, partite insidiose ma non troppo. Poi il torneo si fermerà, perché la domenica successiva è in calendario un impegno della nazionale. Di estrema importanza e che - col senno di poi - segnerà una svolta nella storia del nostro calcio. La nazionale di Vittorio Pozzo (che da pochi mesi la conduce in solitudine e autonomia, dopo anni di commissioni tecniche) è attesa a Budapest, per l'ultima partita della Coppa Internazionale, il torneo cui partecipano le rappresentative dell'Europa centrale. Sono solo cinque, ma il torneo è lungo. Era iniziato a Praga, il 18 settembre 1927, quando i cechi avevano sfidato (e battuto) l'Austria. Finirà, appunto, domenica 11 maggio, con Italia Ungheria.

Kada (capitano boemo) e Blum (capitano austriaco)
Inizia la  I Coppa Internazionale

Vittorio Pozzo convoca i suoi per un allenamento infrasettimanale. A Pavia, giovedì primo maggio. Dodici giocatori: qualcuno viene da lontano, come Costantino che gioca nel Bari. La maggior parte di loro arriva da Torino, da Livorno si schioda Magnozzi, da Bologna Pitto, Tilio Ferraris da Roma. Il raduno è complicato dall'avventura occorsa ai cinque bianconeri (Combi, Rosetta, Calligaris, Orsi e Cesarini): raggiunta in treno Milano, devono cambiare e salire sul convoglio per Genova. Pavia è lungo quella direttrice ferroviaria, si sa. Ma il quintetto, per errore, si accomoda sull'accelerato per Torino. Cosa fanno, tornano indietro? No, a Novara c'è un auto che li aspetta e li accompagna a Pavia. Un po' in ritardo, ma l'allenamento si può svolgere. Una sgambata, contro la squadra locale. Un gol nel primo, undici nel secondo tempo.

Pozzo non sembra soddisfatto: "le condizioni fisiche e tecniche dei giocatori presenti a Pavia pur non essendo disastrose risultano tutt'altro che brillanti". Non a caso forse, Rosetta si procura una distorsione alla caviglia sinistra, e non è detto possa recuperare in tempo utile. Insomma, la "dura navigazione del campionato" ha appesantito le gambe. Tuttavia, se alla squadra manca freschezza, certamente non fa difetto "la tempra né l'attitudine al combattimento. Essa ha bisogno di cure e di raccoglimento prima di entrare in lizza" (La Stampa, 2 maggio, p. 5). Pozzo è esigente. Ad altri osservatori la squadra pare in condizioni eccellenti, "la difesa è sempre fortissima, la linea di sostegno particolarmente forte", solo l'attacco sembra da registrare (Corriere della sera, 2 maggio, p. 4).

La domenica di partite trascorre senza 'incidenti'. Pozza porta i giocatori a Tarcento, poco distante da Udine. Si riposano, fanno vita tranquilla, l'ambiente li coccola. C'è anche Rosetta. Il Friuli è perfetto per queste situazioni, la gente assomiglia un po' a quella del Piemonte, dice Monsù. Pozzo lavora sui dettagli, non lascia nulla al caso. Peccato che piova sempre; pioggerelline e temporali, e anche durante l'allenamento di rifinitura che oppone gli azzurri all'Udinese finisce per diluviare. Al campo c'è tantissima gente, le tribune sono pavesate, drappi tricolori e (ovviamente) bandiere nere. Le cose vanno relativamente meglio, assicura il commissario unico. "Gli azzurri mostrarono complessivamente un grado di efficienza fisica notevolmente migliorato da quello della settimana scorsa: ogni uomo è più fresco, più energico e più deciso. i mezzi fisici rispondono meglio alla volontà: il che non vuol dire però che le condizioni della squadra siano le ideali, tutt'altro. Non rallegra anche dovere affrontare la prova più difficile della stagione in una situazione che non è la migliore desiderabile: ma la volontà e la concordia del plotoncino di uomini a cui è affidata la difesa dei colori nostri in questa prova è tale da ispirare fiducia" (La Stampa, 9 maggio, p. 5).
Raggiunta Trieste, di venerdì la comitiva italiana parte per Budapest.

* * *

Vent'anni fa, un gruppo di giovani con molta allegria e con grandi speranze partiva da Milano suddiviso in due modesti scompartimenti di seconda classe. Il programma comprendeva due notti e un giorno di treno, con cinque o sei cambi di vagone e con una prospettiva non molto invitante per quanto riguardava il servizio logistico niente affatto organizzato.
Ma il viaggio cominciò con molto buon umore. Anche perché in una panciuta valigia del più furbo della compagnia si era scoperto nientemeno che un completo campionario di salumeria e affini, con contorno di fiaschetti alquanto generosi. Era il frutto di una idea geniale appunto del più scaltro, che prima di partire aveva pensato bene di passare dal pizzicagnolo di famiglia e comperare ogni ben di Dio, facendo caricare il tutto naturalmente sul conto del suo inconsapevolmente generoso genitore. Quell'idea e quella valigia salvarono la situazione ... gastronomica dell'allegra comitiva che, senza il conforto di vagoni-letto o di vagoni-ristoranti, si avventurava alla meglio nel suo primissimo viaggio all'estero, puntando su Budapest.
Quella valigia provvidenziale era di Trerè e la comitiva non era altro che la Squadra Nazionale di calcio, che appena reduce da un clamoroso debutto avvnuto il 15 maggio del 1910 all'Arena di Milano, dove la rappresentativa francese aveva dovuto inchinarsi per sei punti a due davanti alle reclute azzurre, si avviava baldanzosamente verso il confine per cimentarsi nel suo primo incontro all'estero, addirittura contro gli Ungheresi, maestri nella palla al calcio e considerati fra i più forti giocatori al mondo.
Il risultato fu molto simile a quello ottenuto dieci giorni prima all'Arena: sei punti a uno, infatti. Ma con questa sola variante: che il numero sei era passato dall'altra parte. Eppure i pionieri della Nazionale italiana ricordano con nostalgia quel primo viaggio, che fu il punto di partenza di una marcia che oggi ha portato il calcio italiano alle stesse altezze dei maestri di quel tempo.

Oggi la squadra azzurra torna a Budapest. Ma non è più il modesto gruppetto che si avviava, fra la indifferenza e lo scetticismo dei più, forte solo della passione che animava i suoi componenti, vittima predestinata, ché l'esperienza, per farsi conquistare, esige lunghi anni di lavoro e di sacrificio.
La battaglia sportiva si può perdere ancora. Ma le condizioni sono profondamente mutate. La squadra azzurra giunge in Ungheria seguita dall'attenzione e dall'augurio di una enorme massa di sportivi, accompagnata da un uomo di Governo, e con le comodità che devono essere concesse a campioni che si battono ad armi pari per un primato europeo. Gli allievi di venti anni fa sono diventati a loro volta maestri.

[Emilio de Martino, 'Corriere della Sera', 10 maggio, p. 4].

Magiari e italiani: 26 maggio 1910

* * *

Il match è di importanza assoluta. Vale la Coppa. E' praticamente una finale: chi si aggiudica i due punti scavalca Austria e Cecoslovacchia e sistema il trofeo in bacheca. Gli azzurri sarebbero messi meglio, se non avessero incassato due sconfitte nelle partite con gli austriaci, autentiche bestie nere, mai domati in ormai undici sfide. Il tabù ungherese è stato invece archiviato di recente, proprio nell'ambito di questa competizione: il 25 marzo 1928, a Roma, e si è trattato di una entusiasmante rimonta.

25 marzo 1928
Esultanza azzurra dopo il gol decisivo di Libonatti

I magiari giocano in casa, l'attesa è enorme, lo stadio del Ferencvaros si annuncia stipato e ribollente. Nel frattempo, tuttavia, Pozzo ha cambiato la squadra. Parecchi di coloro che a Roma piazzarono il colpo sono fuori dal giro, momentaneamente o definitivamente. Bernardini e Libonatti, per esempio, verranno saltuariamente rispolverati; De Prà, Pietroboni, Conti, Rossetti e Levratto non più. La grande novità - ovviamente - è Giuseppe Meazza. Quella di Budapest sarà la sua prima 'ufficiale' in maglia azzurra.

Pozzo 'sente' il momento, e lo fa sapere ai lettori del suo giornale. Esagera un po'? Lui sostiene di no. "Si può dire senza esagerare che mai incontro internazionale disputatosi sul continente europeo è stato finora circondato da una curiosità così intensa e da un'attesa cosi viva come questa". E poi tesse l'elogio della potenza magiara: esperienza, base tecnica e quantitativa, esportazione di giocatori d'alta qualità ('La Stampa', 10 maggio, p. 5). Budapest e Vienna sono ancora un'altra cosa da noi.

La comitiva azzurra è accolta con manifestazioni di entusiasmo e di amicizia. Anzi, con un certo subbuglio. Nel tardo pomeriggio del sabato è prevista la visita del campo di gioco. Si prendono le misure. Lungo centoventi metri, largo sessantaquattro. Tutto regolare. Ma totalmente privo d'erba, nudo, secco, duro, irregolare. Orsi trova "una striminzita e timida fogliolina di un millimetro o due" vicino a una bandierina del corner, la strappa e se la tiene "come piccolo cimelio". Rosetta probabilmente non giocherà. La squadra è concentrata, il morale degli uomini "saldo". Si rilassano in piscina, dove incrociano qualche giocatore avversario. Fraternizzano.

Trovare i biglietti è difficile. Grandi affari per i 'bagarini'. Molta gente attesa dall'Italia, forse è la prima grande trasferta degli italiani al seguito della loro nazionale. Hugo Meisl, il grande viennese, prevede difficoltà per l'Ungheria. Mancanza di sicurezza. Qualche giocatore 'superato'. Avranno grandi motivazioni, generate anche dai premi-partita. Ma, conclude, "gli azzurri italiani stanno attraversando un periodo di ascesa. Se giocheranno come a Francoforte gli Ungheresi non avranno motivi di rallegrarsi". Meisl fa riferimento al match vinto dall'Italia il precedente 2 marzo in terra tedesca; un avversario comunque e certamente, all'epoca, abbastanza facilmente addomesticabile dalla nazionale italiana. Tedesco sarà l'arbitro, Peco Bauwens, molto esperto, lo stesso della partita di Roma. Calcio d'inizio alle 17.

* * *



Fu quella di Budapest la gran vittoria della nostra ricostituita e risorta squadra. L'undici nostro non aveva mai giocato come quel giorno sul vecchio campo del Ferencvaros. Un trionfo per il nostro giuoco collettivo, come esso era stato impostato ed eseguito, ed un trionfo per il valore tecnico dei singoli individui. A metà tempo eravamo ad uno a zero, per rete di Meazza: alla fine vincevamo per cinque a zero, per altre due reti di Meazza, ed una ciascuno di Magnozzi e Costantino. I due toscani Pitto e Magnozzi avevano per incarico di portare all'esaurimento il noto centro mediano ungherese Turay, che si smontava qualche volta con relativa facilità. Presero a cuore il compito. Ricordo che avvicinatomi alla linea del fallo, sentii che, ammiccando al magiaro, rosso in viso che sembrava stesse per scoppiare, l'uno dei due diceva all'altro, in pretto livornese, a mo' d'incoraggiamento: "Dài n'altro po', che se scuce!".


Pressione ungherese

La Coppa in palio era uno splendido oggetto in cristallo di Boemia, regalato dal Presidente della Federazione Cecoslovacca. Fu consegnata a me, perché la portassi in Italia, ed io, durante il viaggio di ritorno la tenevo sul tavolinetto del mio compartimento del vagone letto perché al di qua del confine ognuno voleva vederla.
[Vittorio Pozzo, Campioni del mondo, pp. 185-187].


* * *

Di questa partita possediamo solo fonti scritte - nessun filmato, rarissime immagini. Ci sono le cronache dei giornali, che la esaltano in prima pagina; c'è la storiografia posteriore, ovviamente meno ricca di quella dedicata alle avventure nella Coppa del mondo. Pozzo mette l'accento sulla coesione, lo spirito indomito, il grande carattere dei suoi uomini. "Gli azzurri hanno dimostrato ieri in modo smagliante che cosa possono ottenere undici italiani disciplinati, ordinati, fermi nei loro propositi, fidenti nelle loro forze. Essi hanno detto a se stessi, al pubblico presente e al mondo sportivo e non sportivo che stava osservando da vicino e da lontano con attenzione e con curiosità, che cosa vogliono dire la concordia, l'unione, la volontà, la fede" ('La Stampa', 12 maggio). Pozzo ha una cultura cosmopolita, ha girato il mondo, non si deve credere che i suoi fossero davvero discorsi 'di regime', anche se al regime erano funzionali. Il suo orizzonte restava soprattutto il gioco, e il gioco la sua passione. Il suo spirito, più risorgimentale che fascista. Patriottico, senza dubbio: ma non provinciale e tanto meno meschino.

Pozzo non esalta nessuno dei suoi. Tutti hanno contribuito. Non mette un fuoriclasse sul piedistallo. Per lui c'è solo la squadra. Eppure ...

Eppure la partita di Budapest inaugura il decennio di Meazza. E il decennio di Meazza coincide con l'epoca dei maggiori successi conseguiti dalla nazionale italiana. L'epoca del grande decollo del nostro calcio. Il decollo è avvenuto a Budapest. Ma sarebbe stato ugualmente un volo così straordinario, senza Peppino Meazza?


* * *
Mario Sconcerti, La differenza di Totti. Da Meazza a Baggio l'evoluzione del numero 10, pp. 1-9.

Il primo numero 10 italiano è stato probabilmente Guseppe Meazza ...
Era piccolo e apparentemente fragile, giocava centravanti nell'Ambrosiana da quando aveva 17 anni. Più irridente che coraggioso. Era geniale, decisivo e improvvido come si è sempre pensato debba essere un numero 10. A rigor di logica Meazza non ha paragoni, è stato il miglior giocatore italiano. A 21 anni era già arrivato ai cento gol in Serie A. Baggio ci arriverà a 27, Totti a 28, Mancini a 30 ...
Giuseppe Meazza è grande e sconosciuto alla maggior parte degli italiani di oggi. A malapena si ricorda che porta il suo nome lo stadio di Milan e Inter, detto impropriamente "San Siro". Meazza è stato due volte campione del mondo ...
Meazza aveva tutto del numero 10 fuorché il numero. Aveva piedi ottimi, senso del gioco e attitudine al gol. C'era qualcosa di straordinario ed eccessivo nel suo modo di essere il calcio. Sapeva fare tutto, sapeva fare troppo ...
E' significativo che oggi soltanto pochi sappiano chi è stato. Dimostra che la forza dello sport è sempre direttamente proporzionale alla comunicazione che lo muove. E soprattutto che il calcio è quasi soltanto cronaca, non ha né i mezzi né il tempo per diventare storia. Nessuno è in grado di giudicare Meazza, di confrontarlo con i giocatori del dopoguerra ...
Così è possibile che il miglior numero 10 sia stato semplicemente il primo, ma non lo sapremo mai ...
Di sicuro Meazza aveva numeri eccezionali. Pozzo lo fa debuttare in Nazionale nel 1930, a 20 anni. Approfitta di una partita che si gioca a Roma per togliere di squadra il centravanti titolare, il napoletano Sallustro, un vecchio fenomeno, una gloria vesuviana adorata e protetta. I tifosi del Napoli vanno in migliaia a Roma, trasferta non difficilissima a quei tempi, solo per fischiare il ragazzo che aveva messo fra le riserve Sallustro. Ci provano anche, lottano furiosamente contro la voglia di farsi trascinare da quel ragazzo che gioca al calcio come nessuno e che segna due gol in pochi minuti. Poi si fanno conquistare e cominciano a inneggiarlo ...
Pochi mesi dopo, a Budapest, si gioca la finale della Coppa Internazionale. E' l'alba di un nuovo tempo per il calcio. Sta per nascere la Coppa Rimet, si stanno affermando le Olimpiadi e i regimi forti. 
A Budapest sembra si giochi una partita mai nata. Solo una volta l'Italia ha battuto l'Ungheria in ogni tempo e anche quella volta parve rubare la partita. Loro giocano largo, aperto, elegante. Noi siamo incisivi ma storti, molto attenti alla difesa. Il catenaccio fondamentalmente non l'ha inventato nessuno. Noi lo abbiamo dentro dalla nascita.
Loro giocano meglio e si vede. Ballano calcio, sono i brasiliani d'Europa, splendidi e fragili come sempre. L'Italia sembra cedere da un momento all'altro, poi Ferraris batte una punizione che il portiere non trattiene. Entra Meazza e segna: 1 a 0.
Nel secondo tempo, fuga di Orsi e cross, colpo al volo di Meazza e altro gol: 2 a 0. Pochi minuti e avviene un prodigio che segna il tempo. E' il settantesimo minuto, Costantino tira diritto in porta, ma è tutto così sbagliato che il tiro diventa un cross. Non lo prende nessuno se non Peppin Meazza che aggancia e al volo porta la palla oltre i due difensori centrali. E' solo davanti ad Aknai, il portiere ungherese, gli si avvicina con scherno. Alza la mano, invita il portiere ad uscire, quasi si ferma. Aknai abbocca, non capisce, esce a valanga. E Meazza lo batte con un piccolo tocco sulla destra.
Questo salto improvviso oltre la difesa, questo piccolo miracolo di solitudine con irrisione del portiere compresa, verrà detto d'ora in poi "gol alla Meazza".
L'Italia vinse 5 a 0, conquistò il suo primo trofeo internazionale e lo fece con tre gol di Peppino Meazza. Fu una vittoria che ebbe grande riscontro politico e molto risalto sui giornali. Fosse successo adesso chissà cosa avremmo scritto di Meazza. Il punto è che nessuno oggi sa nemmeno cosa sia stata la Coppa Internazionale. E pochi potrebbero garantire sulla competitività di quel calcio. Ma uno che stoppa al volo un tiro sbagliato e con quello salta la difesa, chiama fuori il portiere e poi gli mette dolce la palla dove non arriva, è un grande calciatore in ogni epoca.


Mans

Un fuoriclasse (e gli altri)

In Portogallo, contro una nazionale senza l'asso epocale (Eusebio), non qualificata per la Coppa Rimet e in fase di evidente declino, l'Italia disputa l'ultima amichevole importante nella preparazione del torneo messicano. La critica si aspetta un consolidamento degli assetti di squadra, un gioco più fluido, una ulteriore crescita sul piano del gioco. La vittoria è onesta, ma i dubbi permangono. Sono dubbi che riguardano lo spessore del centrocampo, e il solito dualismo tra Mazzola e Rivera. Per fortuna, c'è Riva e Riva mette tutti d'accordo. Porponiamo qui le riflessioni dettate da Giovanni Arpino a commento della partita.


Lisbona, lunedì matt.
Gli unici veramente felici a Lisbona sono i marinai della «Michelangelo», arrivati a ventisette nodi orari da Genova pur di non perdere l'incontro degli azzurri con il Portogallo. La Nazionale sollecita un determinato tifo, orgoglioso e pieno di speranze. L'attesa che la circonda è legittima e merita ricompensa. 
E' giusto dire: non creiamo polemiche, invitiamo l'intero clan azzurro a prepararsi in pace e senza attriti per l'impresa messicana. Siamo stati tra i primi a sostenere questa necessità. Però non possiamo, da questa posizione, passare addirittura all'idillio, che sarebbe ingiustificato, perfino colpevole. 
La Nazionale c'è, o meglio la si comincia ad intravedere, ma ha ancora bisogno di molto lavoro, non tanto sui singoli uomini, che entreranno in forma al momento opportuno, quanto per gli schemi di gioco. 
C'è Riva, e va bene. Riva fa tutto. Dategli tre palloni decenti in novanta minuti, e lui ne scaraventa in rete due e l'altro lo traversa anche se nessuno si è fatto avanti a raccoglierlo. Riva è come un grande pugile in agguato sul ring, sempre alla ricerca dell'attimo in cui sferrare il suo uppercut decisivo. Ma è troppo azzardato sperare soltanto in questo uppercut. E' necessario che gli azzurri abbiano a disposizione un più ricco repertorio di colpi. E' giusto, quindi, costruire la Nazionale per Riva e su Riva, ma c'è modo e modo per erigere questa costruzione, dal basamento fino al tetto. 
La vittoria sui modestissimi portoghesi non deve far strillare di gioia. Abbiamo visto una difesa abbastanza registrata, abbiamo potuto notare come due punte (Riva e Anastasi nel secondo tempo) siano indispensabili per costruire un minimo di gioco e di pericolosità in attacco. Ma il centro campo difetta ancora. Non è il Mazzola centravanti che serve, è il Mazzola della finale europea a Roma, il Mazzola mezz'ala veloce, dal passaggio teso, dalla «marcia in più». 
Rivera potrà essere utile più di una volta, ma il centro campo azzurro, con il Rivera di sempre, è lento, elabora troppi palloni anziché spedirli secondo linee verticali. Accanto a De Sisti, lavoratore continuo e prezioso, è necessario appunto Mazzola, il suo scatto rifinitore, il suo suggerimento rapido. 
Questo è il tema tecnico della giornata. E forse bisognerebbe aggiungere che le punte convocate per il Messico sono un po' poche. Che succederebbe se mancasse uno degli attuali titolari? Come avanzare uno dei nostri centrocampisti, che hanno perso o non hanno mai avuto la mira e lo scatto risolutivo degli ultimi metri? Riva è insostituibile, ma non lo si può abbandonare tra due o quattro uomini e sperare di trovarlo ogni tanto con un rarissimo passaggio azzeccato. Si fa urgente la necessità di affiancarlo in modo stabile, di dar fiducia ad Anastasi, e di avere una terza punta (non il solo Gori) a portata di mano per ogni eventualità messicana. 
La lezione di Lisbona è esemplare: non abbiamo ottenuto una vittoria da fumo negli occhi, non abbiamo schiacciato uno squadrone, ma appena appena dato l'alt ad un avversario privo di idee, di potenza (e di Eusebio). Per il Messico ci vuole di più: non solo dagli stessi uomini schierati in Portogallo, ma da tutto il clan degli azzurri od azzurrabili. Riva non è San Gennaro: non gli si può chiedere un miracolo ogni tre giorni. 

Stampa Sera, 11 maggio 1970

Vedi il servizio sulla partita in Cineteca