Quando il Milan prese un 'top-player'

Da più di un anno non era più il Milan, ma l'Associazione Calcio Milano, per decisione governativa e xenofoba che aveva imposto l'italianizzazione del 'nome' ai club calcistici sorti a cavallo di '8 e '900 su iniziativa di sportivi o comunità di residenti in Italia di passaporto britannico. Il Milan - anzi, il Milano - viveva stagioni mediocri: dall'istituzione del girone unico (1929-30) non aveva mai fatto meglio di un terzo posto in campionato; né aveva schierato giocatori di prestigio stabilmente entrati nelle rose portate da Vittorio Pozzo ai mondiali del '34 e del '38. Gli squadroni erano altri: il Bologna, la Juventus, e naturalmente i cugini: l'Internazionale Football Club, anzi (dal 1928) la Società Sportiva Ambrosiana.

La stagione 1940-41 non era iniziata meglio. Alla fine del 1940, dopo l'undicesima del girone di andata, il Milano galleggiava mediocremente nel centro della classifica. Particolarmente triste era trascorso il Natale, venuto tre giorni dopo una dura lezione subita a Bologna. Meglio andò il capodanno, introdotto da una buona vittoria sulla Fiorentina a San Siro. La vetta della classifica era distante sei punti, e otto squadre (persino l'Atalanta, persino il Novara, persino il Livorno) ne avevano fatti di più. Le tre grandi del decennio erano in cima a far mischia, pur procedendo di passo abbastanza lento. Ci voleva decisamente un 'top-player': in effetti era stato già preso, e la tifoseria rossonera aveva ora qualche motivo per guardare al futuro (calcisticamente parlando) con un po' di ottimismo. L'affare - il grande affare - era stato concluso il 28 novembre. Il grande calciatore in questione, per regolamento, non poteva però scendere in campo con la nuova casacca prima dell'anno nuovo.


Il 28 novembre, dunque. Un giovedì. La precedente domenica il Milano aveva buscato duro a Bergamo; sei punti in otto partite, piena zona retrocessione. La domenica successiva (il 1° dicembre) il campionato si fermava: a Firenze la nazionale incontrava in amichevole l'Ungheria. Una classica, da sempre. Monsù Poss, poprio il 28 novembre, dettava a La Stampa i dolci ricordi che la sfida imminente evocava, e non solo per lui. Contemporaneamente, Umberto Trabattoni, brianzolo e commerciante di lane, commissario straordinario del Milano (nella foto qui a destra), tesseva la sua tela e metteva a segno il suo colpo.

Il top-player in questione non era più giovanissimo. Aveva poco più di trent'anni. Non giocava da un po', ma nessuno s'era dimenticato di lui. Infatti era molto più di un 'top-player': era, come disse un suo amico, il football. Anzi, il fòlber. Era Peppino Meazza. A riposo da più di un anno (dalla sua ultima partita in maglia azzurra, a Helsinki, 20 luglio 1939): endoarterite obliterante. Non 'sentiva' più il piede sinistro. Ma era sempre Meazza.

E Peppino è pronto all'esordio in maglia rossonera: il 12 gennaio 1941, a San Siro. Il Milan ospita la Juventus. Il morale dei casciavit è leggeremente migliorato; la prima partita dell'anno aveva portato un pari in casa della Lazio. Ora, finalmente, "l'antico capitano dell'Ambrosiana" poteva rientrare, "troncando finalmente con un fatto preciso la lunga e dolorosa serie delle incertezze e delle notizie contradditorie" (Il Littoriale, 11 gennaio 1941).

L'attesa è grande, ma una vena di scetticismo filtra dalle cronache della vigilia. Lui avrebbe preferito iniziare  la domenica prima, a Roma. Clima migliore, avversari meno agguerriti. La desuetudine agonistica genera timori. A Milano il freddo è polare, il prato di San Siro è imbiancato. Si annuncia una giornata di nebbia fittissima.

"Sbucano le squadre dal sottopassaggio ed in testa a tutti sono Varglien II, capitano dei bianconeri, e Peppino Meazza, nominato, subito alla sua prima gara in difesa dei nuovi colori, capitano del Milano" (La Stampa, 13 gennaio). Dunque, "l'antico capitano dell'Ambrosiana" è diventato il capitano del Milan (anzi, del Milano): "gli applausi ed i commenti li potete immaginare". Non certo la sagoma dell'atleta perfetto, ma è sempre lui:  "grassottello, schiena curva, inconfondibile per il suo stile di corsa e per il suo tocco di palla, l'ex 'Balilla', miracolosamente tornato allo sport attivo dopo un anno e mezzo di assenza, prende subito a giuocare con l'usata perizia e con la disinvoltura del campione sicuro dei suoi mezzi". Uno così fa ancora (e sempre farà) la differenza: infatti, "ecco che il Milano, quasi quell'uomo fosse il toccasana della squadra, attacca, pur su di un terreno traditore, con un giuoco manovrato che stupisce i suoi stessi fautori".  Chiaramente, il suo passato di simbolo dell'altra sponda non costituisce un problema: "ogni sua palla fa scattare gli spettatori in applausi. Il giuocatore riacquista in poche battute la sua popolarità di fuori classe e lavora di gusto". Boffi cannoneggia. I tifosi si dànno di gomito: "Hai visto che roba? con Meazza a fianco farà un sacco di gol". Segnerebbe anche Peppino, verso la fine del primo tempo, col Milano in vantaggio per due a uno, se un suo "gran bel tiro ... a portiere ormai battuto non fosse occasionalmente parato da Degli Esposti, scivolato proprio avanti la porta juventina".

Era pur sempre, quello rossonero, un XI votato a mediocrità pedatoria. La nebbia svanisce nell'intervallo. La Juve attacca forsennatamente, e coglie il pari (Gabetto, toh, un altro che farà il gran balzo di lì a qualche anno). E allora la scena cambia: "Meazza, rimasto in ombra per un quarto d'ora, si rimette in moto e passa palloni preziosi a destra e a manca". Sprechi a ripetizione. Finisce due a due. Semplice escogitare un occhiello che sintetizzi la partita: "Meazza è ancora un asso".

Il top-player farà un buon campionato, portando il Milano (addirittura) al terzo posto, a un solo punto dall'Ambrosiana. Il Bologna campione, a San Siro paga dazio pesante, il 6 aprile. Stirato e confinato all'ala, Peppino lascia il suo timbro, e finisce 5:1. Ma prima ancora, il 9 febbraio, Meazza aveva vissuto la sua più strana domenica. Entra sul campo dell'Arena capitanando il Milano (foto a sinistra). Gioca il derby a ritmo ridotto, probabilmente non si sente a suo agio; il Milano chiaramente ne soffre, e alla fine del primo tempo è sotto di due. Dimezza a inizio ripresa; Peppino, a pochi minuti dalla fine, segna il gol del pareggio. Quale sia stata la reazione dei supporter nerazzurri, non è dato sapere. Quali pensieri si affollassero in quel momento nella sua testa, nemmeno. Avrà pensato qualcosa in dialetto, che si tenne e si terrà sempre per sé. A distanza di anni, dirà di aver commesso il più grande errore della sua vita, andando a militare tra i cugini. A quel gol, fra il pubblico che affollava l'Arena, qualche cuore nerazzurro probabilmente applaudì. Si trattava pur sempre di un simbolo, capace di essere e rimanere per tutti quel che era sempre stato, durante e anche dopo la fine di un'era lugubre e disgraziata.

Mans