Soltanto l'orgoglio non è venuto meno

di Giovanni Arpino

Rotterdam, 31 maggio.
L'Inter, squassata dagli assalti dei «tulipani», ha ceduto a Rotterdam dopo una battaglia disperatissima. La squadra nerazzurra ha denunciato tutti i limiti attuali, malgrado la prova d'orgoglio dei suoi uomini migliori: Facchetti, Bellugi, Oriali, Burgnich e Boninsegna si sono battuti allo spasimo, ma le costruzioni interiste, che avrebbero dovuto poggiare sul senso geometrico di Frustalupi e sulle inventive di Mazzola, hanno dimostrato di balbettare di fronte alla furia atletica e alle vampate degli olandesi. 
Due volte Boninsegna ha sfiorato un paletto della porta avversaria e una volta Mazzola si è lasciato anticipare dal portiere. Ma è tutto per le possibilità dell'Inter di oggi, priva di scheletro e dì una «memoria» di gioco offensivo. 
Gli olandesi hanno imposto non solo il ritmo, ma il grado di una tecnica superiore e freschissima. Terzini che coprono le zone avventandosi sulle fasce laterali, uno stopper e un libero di una truculenza agonistica quasi assassina, e poi quei due: cioè Cruyff e Keizer. campioni di un timbro davvero europeo. Keizer è un'ala che svolge compiti massacranti ma con un pizzico di autentica genialità sia a centrocampo sia in proiezione offensiva. Cruyff (anche se Oriali lo ha controllato con strenui sacrifici) è uomo di accelerazioni impressionanti, stacchi e passaggi impeccabili. 
L'Inter non poteva spremere altri succhi da se stessa, se non la tenacia dei difensori vecchi e nuovi. Ma la povertà del suo gioco, la nullaggine patetica di Jair, la mediocrità di Frustalupi e di Bertini non erano certo scudi per questi assi del «football tulipano». 
Costretta ad aprirsi dopo il primo gol, la squadra nerazzurra è apparsa sbilenca e legata a uno striminzito calcetto anche in Mazzola, talora frenetico e subito dopo intimidito e saltato via dal gioco profondo degli avversari. Certo, i milanesi possono avanzare una grossa attenuante, il forfait di Giubertoni stroncato dal «libero» olandese (di fronte al quale certi falli del Benetti «in ritardo» sul pallone sono autentiche carezze). 
L'uscita dello stopper ha scompaginato il pacchetto difensivo dell'Inter, aprendo incrinature pericolose. Ma dal limite della propria area in avanti, i nerazzurri non hanno costruito quasi nulla, aggrediti com'erano appena tentavano un contropiede. L'Inter ha compiuto un miracolo arrivando a questa finale, e lo dimostrano con sincerità gli stessi suoi dirigenti. A Rotterdam, se il calcio obbedisse alla pura logica, avremmo dovuto vedere contro i Keizer e i Cruyff atleti quali Netzer e Beckenbauer, esponenti d'un calcio europeo dal quale oggi bisogna saper trarre una giusta lezione. 

Il destino dell'antica Inter si è consumato a Rotterdam, spegnendosi a poco a poco, come l'ultimo centimetro di una candela. Bordon, sul finire della partita, ha detto no ad almeno tre palloni-gol che avrebbero schiacciato la squadra milanese con una punizione fin troppo dolorosa. L'Ajax si trova al vertice della sua stagione. Gli olandesi temono di non poter dare ricambi a questa generazione di notevoli calciatori. Ma per ora se la godono un mondo, e meritatamente. 
Il gioco dei «tulipani» è lucido e brillante come i campi ed il verde della loro campagna, ma è anche costruito con un gran fil di ferro interiore. Quello stesso fil di ferro che una volta teneva in piedi l'Inter di Suarez. L'Inter che non poteva non arrugginire. Il suo ciclo è chiuso, contemporaneamente a quello del Club Italia. Bisogna ricominciare subito. E alla Juventus, futura protagonista di Coppa, servono sì gli auguri ma anche una ferma disposizione a creare gioco. La vittoria dell'Ajax è un esempio lampante di come fare, di come mettere una squadra in condizioni di perfetto decollo.
Rotterdam, impazzita di gioia, stasera brinda con torrenti impetuosi di birra. Ai nerazzurri, che proprio non potevano fare di più, resta la consolazione d'aver ceduto ai più forti. C'era un visone di premio per il miglior interista; senza voler fare dell'ironia, speriamo che non sia una pelliccia, ma un visoncino vivo: da allevare per il futuro.

"La Stampa", 1 giugno 1972, p. 14
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Italia - Stati Uniti (27 maggio 1934)

Le cronache di Monsù
28 maggio 1934

Era l'esordio assoluto della nazionale italiana a una Coppa del mondo. Certo, si giocava a Roma e l'avversario - la selezione statunitense - non era irresistibile. Si trattava comunque di un evento storico; Monsù, nel servizio per 'La Stampa', non concesse alcunché alla retorica, evitò trionfalismi di sorta, si limitò a raccontare la partita e la prestazione dei suoi. Era decisamente concentrato, isolato da tutti i rumori del regime e per nulla incline ad aggiungere la sua alle voci della propaganda che occupavano abbondantemente i resoconti del match su tutti i giornali.


Roma, 28 mattino
La squadra nazionale italiana ha superato l'ostacolo degli ottavi di finale del campionato del mondo. L'ostacolo stesso, rappresentato dalla squadra degli Stati Uniti, doveva, secondo i più, avere carattere di facilità; ciò per l'opinione fattasi, osservando all'opera, giovedì scorso, gli americani del nord contro i messicani.
Allora l'unità era apparsa robusta nella struttura dei singoli uomini, ma tutt'altro che forte in fatto di tecnica singola e collettiva. Pareva una squadra incapace di mostrare consistenza di fronte all'operato di un «undici» a fondo tecnico ed a linea di azione ordinata. Gli «azzurri» non durarono fatica a imporsi, ma l'avversario si rivelò come molto più forte del previsto. 
Esso lottò con gran coraggio, incassò il primo, il secondo, il terzo punto senza batter ciglio, reagendo animosamente ogni qualvolta la pressione di cui era fatto oggetto accennava a diminuire di intensità. Alla ripresa modificò la formazione, proprio nello specifico intendimento di rinvigorire l'attacco e di tentare l'impossibile per risalire lo svantaggio. Gonzales  [recte Gonsalves, qui e in seguito], il centro mediano, passò alla mezz'ala sinistra. I due migliori uomini della compagine, il portoghese Gonzales e l'italiano Donelli, vennero così a trovarsi affiancati all'attacco e, allora, per una ventina di minuti, gli americani si comportarono in modo interessante. Il punto segnato fortunosamente, ma imparabilmente, da Donelli verso il ventesimo minuto pose la parola fine a questo periodo di pericolosa, ma simpatica attività nordamericana, che allora gli «azzurri», che già stavano addormentandosi sul risultato raggiunto, come se già la loro mente fosse fissa sulle necessità del prossimo avvenire, si risvegliarono un po' irritati e in un attimo accumularono tanti punti da chiudere schiacciantemente la vertenza. 
Gli «azzurri» tennero, come atteggiamento generale di squadra, il contegno che si adattava alla circostanza. Essi cercarono, dapprima, di vagliare l'avversario che si presentò subito, ripetiamo, più bellicoso del previsto; poi tagliarono corto con gli indugi e concretarono il risultato con tre punti, l'ultimo dei quali parlò un linguaggio così pratico e altisonante da mandare in visibilio il pubblico. Una «sciabolata» lo definì il Duce, e una sciabolata esso fu pel modo con cui infilzò e inchiodò l'avversario. Poi, conformemente a quelli che erano gli intendimenti presenti, gli «azzurri» cessarono di lottare, guardarono di non correre soverchi rischi e cercarono di giungere al termine della gara senza guai. Ché si tratta dì un torneo a difficoltà crescenti, questa volta, e non di un incontro a valore isolato. Soltanto, esagerarono un po' nell'abbassamento di tono e di impegno, e nella breccia si gettò l'avversario che non aveva affatto smobilitato. Fu necessario rimboccarsi allora le maniche per ristabilire la distanza, e la cosa venne fatta senza indugio e in tono perentorio. 
I nostri uomini soffrirono tutti, chi più chi meno, del calore. Schiavio fu preso da un princìpio di insolazione, tanto da accasciarsi durante il riposo di metà tempo e da far pensare seriamente all'opportunità di evitargli la fatica della ripresa. Pizzolo e Ferrari sentirono la temperatura nel primo tempo; Monti e Meazza nel secondo. Il sole dardeggiava spietatamente sul campo attraverso all'atmosfera, resa limpida dalla pioggia caduta nelle prime ore del pomerìggio e non gli italiani soli ebbero a risentirne; gli americani ne erano letteralmente accasciati a metà tempo. 
La squadra azzurra giocò, come già accennato, a tratti e a strappi. A momenti, diede l'impressione di essere irresistibile, a periodi, lasciò fare all'avversario; proprio a pieno essa non si distese mai. Pareva una gara di allenamento in cui gli uomini non fossero del tutto convinti della necessità di ricorrere a ogni possibile risorsa. Orsi e Allemandi furono i giocatori più continui della compagine. Monti fece un magnifico primo tempo e Schiavio, quando lottò per segnare, fece grandi cose.Combi ebbe un po' di lavoro nel periodo iniziale del secondo tempo. Si protese in una buona parata su un tiro insidioso da vicino; non poteva fare nulla contro il tiro di Donelli che lo battè, tiro che ingannò la difesa a seguito di un passaggio sbagliato di un americano e che rimbalzò in rete picchiando contro il palo trasversale. 
Nessuno degli uomini nostri, del resto, si portò male. Mancò in parecchi la continuità dell'azione, dovuta a non soverchio impegno, a prudenza agli effetti della temperatura. Donde la impressione di non completa fluidità e regolarità nelle azioni. Occorre, d'altra parte, menzionare che, con una media fortuna, il bottino degli italiani sarebbe stato anche più ampio di quanto esso fu. Basti ricordare le tre occasioni in cui, col portiere nettamente e inequivocabilmente battuto, il palo salvò la rocca americana dalla capitolazione. Fu prima Meazza a piantare il pallone sulla sbarra trasversale; fu, poi, Schiavio, solo davanti la porta a colpire il montante; fu infine Orsi, nella ripresa, a prendere la base del lontano palo con un fulminante tiro basso. Di tiri in porta dì carattere difficile non si ebbe certo penuria in questo incontro. 
Della squadra americana abbiamo detto. Essa lottò a denti stretti fino al termine. La gara giocata ieri vale il doppio di quella condotta giovedì contro il Messico. Sempre così. La squadra debole ha tutto da guadagnare a lottare con una compagine ordinata e tecnica. E' lo stesso fenomeno che succede quando una squadra allievi «allena» una prima squadra; l'ambiente inquadrato e positivo rappresenta una novità piacevole per gli allenatori. Ancora una volta il napoletano Donelli mostrò intraprendenza e senso dell'opportunismo, mentre Gonzales, il portoghese-americano, è uomo che conosce il gioco. Tutti quanti gli americani mostrarono, del resto, di non trovarsi in imbarazzo nel trattare la palla anche in condizioni difficili. La squadra nord americana è caduta, malgrado il risultato, in modo onorevole. 
Gli «azzurri» pensavano già sul campo alla prossima fatica; ci pensavano tanto che, poco dopo le 23, essi erano già di nuovo a Firenze e, a mezzanotte, a Roveta, lontani dal frastuono del pubblico e vicini alle loro occupazioni e preoccupazioni per l'avvenire.

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Gli scozzesi invocano freddo e pioggia

20 maggio 1931

A Roma, il 20 maggio 1931, si sfidarono per la prima volta al gioco del pallone le rappresentative di Scozia e d'Italia. I britannici erano in cerca di riscatto; la loro tournée continentale era iniziata male, con la cinquina incassata al Prater qualche giorno prima. Gli azzurri vivevano un buon momento; la curiosità per il confronto tra 'scuole' era parecchia, anche se l'exploit austriaco ridimensionava in partenza un eventuale successo italiano. Ma la vigilia era dominata da un principale pensiero: in quali condizioni meteorologiche si svolgerà il match? Sentiamo Monsù, nel suo spassoso pezzo di presentazione. 


Roma, 19 notte.
La squadra nazionale italiana è arrivata stasera alle ore 19.05 a Roma proveniente direttamente da Firenze, dove si era concentrata. Compongono la comitiva i soliti giuocatori: Combi e Sclavi come portieri; Rosetta, Monzeglio e Caligaris come terzini; Bernardini, Ferraris, Bertolini e Pitto come mediani; Costantino, Cesarini, Meazza, Ferrari, Orsi e Vecchina come attaccanti; Pilotta come massaggiatore e il Commissario tecnico Pozzo. 
Una pioggia dirotta attendeva a Roma i giuocatori. E' diventata ormai una consuetudine, per gli azzurri, la pioggia. Dovunque essi vanno, piove a catinelle. L'ultima volta in cui essi si trovarono assieme a Bilbao, nella lontana Spagna, ebbe il coraggio di piovere per una settimana intera; e l'acqua li accompagnò fino alla frontiera d'Italia. Non appena questa volta vennero riuniti per l'ultimo incontro della stagione, prese a piovere anche a Firenze, e l'acqua non li abbandonò più. 

Gli scozzesi, che già si trovano a Roma da lunedi, sono viceversa arcilieti del tempo che sta facendo. I dirigenti e i giuocatori della Scozia attribuiscono il risultato sfavorevole ottenuto contro la squadra austriaca esclusivamente alle condizioni di tempo e di luogo in cui essi ebbero a giuocare. E in realtà nessun'altra motivazione esiste per la sconfitta subita. Gli scozzesi, più ancora degli inglesi, sono giuocatori che per emergere o per rendere normalmente hanno assoluta necessità di trovarsi nell'ambiente al quale sono abituati e in cui furono allevati. Diversamente da quanto avviene sul continente europeo, il giuocatore britannico non si assuefa. Fin dai suoi primi calci, se non a una temperatura unica e a una condizione di cose sola: terreno soffice, umidità, tranquillità di ambiente. Quando il giuocatore britannico stesso, sia egli ìnglese, scozzese, gallese o irlandese, esce da queste condizioni e si trova nei roventi ambienti del continente europeo, su terreni duri, sotto il sole caldo e in condizioni nettamente contrarie a quelle a cui è abituato, allora egli fa la figura del pesce fuor d'acqua, perde non del 10 per cento del suo valore, ma addirittura del 50 per cento. 
Gli scozzesi riferiscono che a Vienna essi non riuscirono a ritrovarsi mai. Sono pieni di lodi per il comportamento della squadra austriaca e si dichiarano in particolar modo impressionati di quanto riuscirono contro di essi a fare il centro mediano Smistik e il mediano laterale Gall, nonché l'intera linea dell'attacco. Ma riconosciuto lealmente il merito dell'avversario, essi rilevano il fatto che a batterli non fu la sola squadra austriaca, ma il calore e le condizioni del terreno. 

Una lotta di carattere tutto suo particolare è stata a proposito impegnata fra i dirigenti scozzesi e il Segretario Federale Italiano, maestro Zanetti. Gli scozzesi pregano e implorano condizioni climatiche inglesi, cioè acqua a catinelle, terreno pantanoso e umidità a dovizia; il maestro Zanetti, viceversa, assicura che ha acceso ceri in tutte le chiese di Roma perché il sole più splendente saluti la giornata di domani. Fino a questa sera si può dire che in questa gara di carattere specialissimo hanno trionfato gli scozzesi, perché un acquazzone violentissimo cominciò a cadere verso lo 7 e dura ancora verso le 10. Speriamo che le cose si mettano in senso favorevole agli italiani per la giornata di domani. Diciamo per gli italiani e non solo per il Segretario Federale Italiano, perché naturalmente l'intera squadra azzurra preferirebbe giuocare sotto il sole e in condizioni italianamente normali, che non sotto l'acqua e nel fango. 

Un altro argomento che è al momento attuale oggetto di discussione è quello del cambiamento dei giuocatori. Gli scozzesi si rifiutano energicamente di permettere cambi di giuocatori. Essi asseriscono che non fanno che attenersi, in quanto a questo, ai dettami del regolamento internazionale che prescrive che il giuoco venga giuocato da 11 uomini per ogni squadra. Gli italiani sostengono viceversa il principio che, trattandosi di una partita amichevole, valga quella che è una consuetudine vigente da anni sul continente europeo, di permettere il cambio di quei giuocatori che risultino feriti o effettivamente invalidati nel corso del giuoco. 

La soluzione di questo punto non può non avere riflessi importanti sulla composizione della squadra italiana. Alcuni degli azzurri si trovano infatti in condizioni lontano dalle migliori. Qualche lombaggine, qualche piccolo strappo, qualche postumo di ferite. Evidentemente la preoccupazione di non poter tirare l'incontro fino alla fine avrebbe per conseguenza la esclusione di questi uomini dalla squadra. Certo che 15 uomini in piena e assoluta efficienza, come li si ebbe durante il viaggio in Portogallo e in Spagna,, la squadra azzurra difficilmente li potrà avere ancora. Senza che vi sia nulla di preoccupante, vi è ora da notare che i giuocatori cominciano a sentire la stanchezza e che qualcuno fra essi non si trova nelle migliori condizioni possibili. 
L'incontro avrà luogo alle ore 17. 
Gli azzurri cenarono all'albergo non appena arrivati a Roma, fecero una passeggiatina di una mezz'ora per la città, rientrarono immediatamente e più non uscirono. La stessa cosa dicasi per i giuocatori scozzesi, i quali alle 10 già si trovavano a letto. 
Le intenzioni degli scozzesi, a parlar loro, sono delle più serie. Diremo quasi che queste intenzioni sono micidiali. La situazione, a bene considerarla, non è infatti favorevole sotto nessun aspetto agli italiani. Il risultato di Vienna è stato tale da svalorizzare in anticipo qualunque esito favorevole dovessero ottenere gli italiani domani. Viceversa gli azzurri si troveranno effettivamente a dover affrontare sul campo la reazione di una compagine che è estremamente capace di reazione sia tecnica come fisica, la reazione di una squadra che si è sentita ferita nel suo orgoglio e nel suo amor proprio dalla staffilata rappresentata dalla sconfitta di Vienna. Sotto nessun aspetto la situazione degli azzurri è favorevole. 
Le intenzioni, comunque, dei giuocatori nostri, sono delle più serie. Essi ricordano che l'anno scorso nell'ultimo incontro della stagione subirono una sconfitta, che guastò in certo qual modo una splendida annata. La stagione 1930-31 ha visto finora gli azzurri combattere e uscire senza sconfitte da 9 incontri fra squadra A e squadra cadetti. II desiderio è fermo in tutti i giuocatori italiani di conservare intatto questo titolo di imbattuti.

"La Stampa", 20 maggio 1931, p. 7

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Il Torino campione!

di Giovanni Arpino

Nella «domenica storica» per lo scudetto granata, gioia e angoscia, entusiasmo e thrilling non potevano mancare. Il «campionato giallo» ha voluto tener fede a se stesso fino in fondo, creando guasti coronarici e «stress» da enciclopedia medica. Il pareggio dei granatieri col Cesena, la sconfitta della Juventus a Perugia dimostrano il buon sangue delle cosiddette «provinciali». 

Il Torino, con il suo «vecchio cuore» che tremava per la voglia di fare ma gli levava lucidità di mosse, ha patteggiato durante un incontro i cui novanta minuti parevano durar secoli. Schiacciati dalla responsabilità, gli uomini di Gigi Radice non potevano esprimere il meglio di sé, mentre i romagnoli, pur prudenti e onestissimi, sembravano volergli di re: venite avanti se siete capaci. 

Ma contano ancora queste impressioni, questi giudizi? Lo spettacolo dello scudetto granata, ventisette anni dopo Superga, era di altra importanza, di altra fattura. Il Comunale, trasformato in un cratere vermiglio, conteneva una folla enorme ed esemplare: una folla davvero inglese, seppur con tutti i calori e le febbri di noi mediterranei. Ciò che ha sofferto, gridato, gioito questa folla è stato il vero ingrediente d'una domenica indimenticabile. I vecchi e i giovani cuori granatieri, i piedi stessi che trascinavano i bulloni, si chiudevano in questo abbraccio da antico epos, mentre nuvole di coriandoli, migliaia di bandiere seguitavano a limitare il cielo del Comunale. 



E' questo pubblico che merita il settimo scudetto granata, tutt'intero. Ha letteralmente «spinto» i suoi beniamini per la china di un campionato che pareva ormai deciso: fino a quest'ultima domenica, che vede la squadra di Radix perdere l'unico suo punto casalingo su quindici gare (ed è un neo storico anche questo), mentre la Juve, a Perugia, non ce la fa, si arrabatta, perde convinzione di sé e la partita: ennesima dimostrazione che il calo bianconero era grave e che tutte le ciance su una facile vittoria in Umbria erano fin troppo azzardose. 

Con una media inglese perfetta, con l'impennata che gli è valsa aggancio e rimonta, il Torino di Pianelli e Radix ha così raggiunto il massimo traguardo. E' impresa d'eccezione, sia per il retaggio storico che doveva sopportare il club ad ogni sua apparizione in campo, sia per la felicità d'una squadra nel «ritrovarsi» in pochi mesi. Una cosa ci preme dire: non sarà meteora, come la Lazio o il Cagliari. Il «collettivo» granatiero ha qualcosa di più e meglio nelle sue componenti, anche se sul sentiero del calcio tutto è perfezionabile e nulla perfetto. 

Nel caldo di questa domenica estiva, con l'intera città che festeggia, con le immagini della felicità granata che si inseguono ovunque, finisce dunque la cantica del football di Serie A. Lo scudetto granata pone un sigillo fresco, nuovo, stimolante per tutti, amici ed avversari sportivi. Una squadra giovane, appassionata, familiare, un tecnico tanto abile quanto sobrio e quindi moderno, imprimono un segno nelle vicende del massimo spettacolo sportivo.


Un immenso coro di «alé» fa riecheggiare i suoi echi dalle cantine ai grattacieli. I campioni di Superga hanno finalmente trovato i loro eredi: la storia ricomincia.

"Stampa Sera del lunedì", 17 maggio 1976

La nazionale affonda in Belgio

Sconfitti a Parc Astrid dopo lo scialbo pareggio di San Siro, gli azzurri escono dall'europeo all'altezza dei quarti di finale. Valcareggi si affida ancora alla vecchia guardia; pochissimi i ricambi. Calcisticamente, l'Italia è rimasta al decennio precedente, e lì rimarrà per un altro paio d'anni. Riproduciamo il malinconico e feroce resoconto inviato a La Stampa nell'occasione da Giovanni Arpino.

Bruxelles, 13 maggio.
Gli azzurri hanno ceduto a Bruxelles malgrado una disperata battaglia, ed escono dalla Coppa Europa dopo un'ennesima dimostrazione di calcio pessimo, di manovre sfuocate, di velleità agonistiche bruciate su un falò di illusioni. I tifosi venuti in Belgio dopo viaggi di mille o duemila chilometri - dalla Germania, dalla Francia - si strappavano i capelli in testa stanotte, anche se avrebbero voluto prendere per il collo qualche atleta italiano. Sono volate parole grosse, minacce e hanno avuto molto lavoro persino le barelle. 
La delusione è enorme, e c'è già chi parla di una seconda Corea. Perché l'onesto Belgio, tutt'altro che irresistibile, è apparso ai nostri confronti una squadra quadrata, seria, tesa quel tanto che bastava per difendere le sue possibilità, ma certo non è la Germania di Netzer né il Brasile di Pelé. La cronaca della gara la dice lunga sugli sforzi impotenti dei nostri azzurri, alla ricerca di schemi che non possiedono o non sanno più ritrovare. La gestione Valcareggi è alla fine, il ricordo messicano è ormai un'anticaglia onorevolissima ma da raccontare ai nipoti. La sconfìtta di Bruxelles, invece, così bruciante, così amara e tuttavia inoppugnabile, è la realtà finale, di questa gestione tecnica, è la prova del nove che bisognava porre rimedio prima e che da oggi si apre una stagione diffìcile, quasi crudele per il futuro della squadra azzurra. 
Sono i belgi a partire per primi, anticipando un possibile ed anzi preveduto sprint iniziale degli azzurri. Spinosi e Benetti faticano a trovare immediata posizione, Mazzola sbaglia tocchi su tocchi in avanti, il centrocampo italiano non si disimpegna come dovrebbe. Anche se gli uomini di Goethals non fanno faville, tuttavia il controllo delle manovre, del pallone, gli appartiene, mentre il filtro degli azzurri lascia molto a desiderare. Il primo quarto d'ora si svolge quasi tutto nella metà campo italiana, con rimpalli violenti, con pallonate casuali, con notevoli fallosità perpetrate dai nostri difensori, che fanno muro, ma non riescono a rielaborare un qualsiasi tipo di manovra in avanti. Apparentemente il gioco sembra vigoroso, ma è condotto da atleti stanchi che perdono lucidità nel controllo, certo non favoriti dal maligno vento che disturba le triangolazioni. La cerniera italiana, che dovrebbe far perno su Benetti, De Sisti, Bertini, denuncia subito notevoli impacci, molta fatica nelle rielaborazioni, e anche Mazzola appare assai meno pronto e svelto di quanto ci si aspetterebbe. 
Dopo i primi 15 minuti gli italiani (passato uno spavento creato da Benetti per Albertosi) tentano un paio di sortite che la difesa belga contrae con discreta facilità. Si sprecano gli scontri, i falli e anche le solite recite di Semmeling. Ma è proprio l'ala destra belga ad ottenere una punizione cadendo e ricadendo da vero clown, e il suo cross in area è colto perfettamente dalla fronte di Van Moer, al 23', che segna seccamente a tre metri da Albertosi. E' l'uno a zero che crea disagio e rabbia profonda negli azzurri, ma sottolinea la precarietà dei nostri reparti, che fino a questo momento sono riusciti a contrastare gli avversari solo con pura opposizione di singoli atleti, mai con autentiche manovre. I belgi non sembrano affatto irresistibili, ma la spuntano lo stesso dal centrocampo fino alla nostra area proprio per la fragilità del telaio azzurro e per gli abbandoni di alcuni uomini, tra cui Mazzola, che dopo dieci palloni sbagliati, al 27' ottiene una punizione a sei metri dall'area belga: batte Riva, ma la difesa bianca respinge senza paura. Al 29' un'azione di Mazzola e Spinosi vede un cross dello stopper azzurro che Piot anticipa precipitando su Riva. La squadra italiana dimostra di non saper girare con la necessaria lucidità e se i belgi non fanno complimenti (specie su Boninsegna) diversi azzurri denunciano i propri limiti di condizione fisica e di quadratura tra reparto e reparto, oltre a dimostrare una notevole quanto impotente cattiveria. 
Al 32' gli italiani potrebbro pareggiare, ma il portiere Piot è bravissimo a tuffarsi tra i piedi di De Sisti, liberato in area da uno stretto dialogo di Mazzola-Riva. Un'occasione d'oro, che però dimostra come il numero uno belga sia di statura notevolissima oltre che protetto da una difesa assai smaliziata. Una discesa di Facchetti, che rifornisce Riva e poi Boninsegna (subito anticipato) lo dimostra nuovamente al 35'. Il tempo si chiude con ripicche anche troppo brusche sul campo, con una punizione non sfruttata da Boninsegna e grande amarezza nel pubblico, quasi tutto italiano, di Anderlecht. Un pubblico che malgrado il tifo vede gli azzurri recitare una parte malinconica, priva di estro, di organiche capacità anche se con patetica e indubbia buona voglia. 
La ripresa inizia con Capello al posto di Bertini, talmente ossesso da far fuori anche il belga Van Moer (sostituito da Polleunis). La cornice della gara, il suo senso segreto non cambiano. I belgi dimostrano di battersi davvero per una semifinale di Coppa Europa, gli azzurri innestano il loro 'forcing' ma con una rabbia che non trova sfogo nelle manovre. Due volte, tra il 5' e il 7', Facchetti porta avanti tutta la squadra (e tira anche a rete) ma senza che il gioco italiano sappia distendersi con la necessaria autorità. Un'azione Capello-Benetti si conclude con un cross che crea una gran rissa in area belga, e con un fallo su Boninsegna per cui i nostri reclamano invano l'attenzione dell'arbitro (siamo al nono minuto). 
La difesa belga è molto ben organizzata per sfruttare il fuorigioco, ma ciò che si nota soprattutto è il calo fisico di quelli che furono i nostri grandi combattenti: da un Boninsegna in forma precaria ad un Riva che non rischia più neppure un'unghia di se stesso, e che appena è in possesso del pallone lo smista a gran velocità, evitando il necessario dribbling che s'impone ad una punta, ad un goleador della sua fama. Gli azzurri ottengono ancora una punizione poco fuori dell'area al 16' per fallo su Boninsegna: batte Riva, per l'ennesima volta sulla barriera. Il gioco non sfrutta molto la posizione di Capello, che funge da regista di destra, mentre De Sisti avanzatissimo è in disperata ricerca di un pallone-gol che significherebbe anche l'assoluzione parziale di tutta la squadra. Su una papera di Cera, scavalcato da due belgi al 19', Albertosi si avventura in una scivolata che salva la sua porta da un secondo gol. Al 20' qualche scambio di cazzotti tra Boninsegna e Dolmans, con finzioni di svenimenti e rotoloni per le terre. C'è birra, ma soltanto nei nervi, non certo nelle concezioni di gioco. Alle botte in campo (e ad una finzione del solito Semmeling che 'recita' un fallo da rigore al 24') corrispondono solenni scambi di ombrellate e pugni anche in tribuna, dove il pubblico di parte italiana non digerisce l'andamento di una gara così balorda. 
Al 26' il Belgio raddoppia in modo impeccabile: palla da Lambert in cross tagliato per Van Himst che al volo batte di sinistro e fa secchi sia Spinosi, anticipato, sia Albertosi. Il famoso contropiede temuto a Bruxelles porta l'etichetta belga e non quella azzurra. Qui gli italiani reagiscono con una ferocia passionale che è tanto patetica quanto scoordinata: inutilmente Boninsegna si butta come un ariete, inutilmente Facchetti si catapulta in area belga, inutilmente Mazzola e Capello cercano di crossare i palloni a spiovere. 
Il Belgio tiene bene, con ordine, mettendo in risalto la fragilità delle trame azzurre per la confusione di un centrocampo che non sa dettare azioni profonde, sulle quali la scarsità delle punte è addirittura penosa (tra il Riva che non c'è e il Boninsegna che si limita a picchiare come in un saloon da film western). Vola ancora al 37' Albertosi per interrompere un duetto Lambert-Van Himst. Al 39' Piot respinge una pallonata di Benetti e sul forcing azzurro l'arbitro concede un rigore per fallo su Capello, falciato dal terzino destro belga al 40' dopo un passaggio di Romeo. Riva trafigge Piot con un sinistro basso. Anche i belgi reclamano rigore per una carica subita da Van Himst al 42' in area italiana. Un disperato assalto conclude la notte di Anderlecht: gli azzurri lanciati in massa in avanti per ottenere almeno un pareggio, i belgi ammucchiati (ma con molta geometria) a difesa del proprio vantaggio. Per la Nazionale che fu è tempo di ripensamento, di autocritica onesta, di ricostruzione. Su quanto accadde in questi anni di bello, di brutto, e di non rammodernato, cala la tela.

Giovanni Arpino

La partita: tabellino | highlights

Azzurri d'Italia e granata d'Ungheria

Vi fu una partita, l'11 maggio 1947, tra Italia e Ungheria. Per la ventesima volta di fronte - la prima nel 1910. Una partita amichevole, a Torino. Da una parte dieci giocatori del Toro, tutti quelli di movimento, protetti tra i pali dal portiere della Juve, Lucidio Sentimenti. Dall'altra, nove giocatori dell'Ujpest, integrati dal difensore Ferenc Rudas (Ferencvaros) e dal giovane attaccante del Kispest, Ferenc Puskas.



"Torino si veste oggi d'azzurro per l'incontro che oppone, nella cornice superba del suo stadio, le squadre d'Italia e d'Ungheria. Veste d'azzurro i suoi atleti, chiamati in blocco agli onori della Nazionale. E' una gran festa dello sport italiano ma è, sopratutto, una festa del calcio cittadino. Cinquant'anni or sono sorsero, nella nostra Torino, prime in Italia, le due società che dovevano poi, in dieci lustri di attività agonistica, conquistare vittorie inobliabili; cinquantanni or sono si fondò, a Torino, la Federazione italiana. 

In cinquantanni il calcio è passato dai praticelli della periferia agli stadi immensi eppur insufficienti ad ospitare tutti gli appassionati; Torino e Juventus son divenute società modello per virtù di dirigenti e valore di calciatori. Torino è teatro di un avvenimento al quale dona capacità organizzativa, folla imponente e giocatori di provato valore. E' dunque la sua gran giornata, la sua gran festa. Saranno in settantacinquemila sulle scalee dello Stadio e più sarebbero se gli spalti ne potessero ospitare in maggior numero. 

Attenderanno per ore e ore che gli azzurri e granata sbuchino dal sottopassaggio sul prato verde. Attenderanno la vittoria della squadra del cuore. La folla torinese conosce ed ama quei suoi campioni: dieci sono del «suo» Torino, l'undecima è della sua «sua» Juventus. Li chiamerà, li inciterà, li applaudirà. Il confronto è difficile ma l'undici d'Italia volerà sulle ali dell'entusiasmo popolare verso la vittoria bella" (Luigi Cavallero, La Stampa, 11 maggio 1947).



Ospite del "Festival of Britain", l'Argentina s'impantana a Wembley (9 maggio 1951)

La guerra era finita da qualche anno, ma i tempi restavano difficili anche per l'Inghilterra. Fu perciò che nel maggio del 1951 (dunque a cent'anni esatti di distanza dalla Great Exhibition del 1851, la prima vera, grande Esposizione universale, e dopo almeno 5 anni di preparativi) - il governo laburista organizzò il Festival of Britain. Il paese guardava al futuro e rivendicava il suo orgoglio, cercando di raccontare se stesso: "una rassegna dello spirito, dell'invenzione, della storia inglese" [CorSera, Domenico Bartoli, 18 maggio 1951], nel quale un ruolo principale fu occupato dalla tecnologia. Il 3 maggio, giorno della solenne inaugurazione, Londra era già invasa da folle di turisti. Si prevedeva che i padiglioni costruiti nella South Bank, dove spiccava  l'immensa cupola della Dome of Discovery, sarebbero stati visitati da milioni di persone.



Nella grande manifestazione, parte non marginale ebbe lo sport. E, in particolare, il football. Club e rappresentative di vari paesi accettarono l'invito a disputare partite (relativamente amichevoli) sui campi dello United Kingdom. L'Inghilterra aveva ormai rinunciato al suo tradizionale isolamento, e il Festival consentiva alla FA di rafforzare i suoi legami internazionali. Un fitto programma di partite [vedi: l'elenco riguarda solo i matches tra squadre di club], avviato il 7 e concluso il 15 maggio. Da Londra, Vittorio Pozzo lo descrive con entusiastico trasporto (ma chissà: non è detto che sotto sotto non ci fosse dell'ironia): "L'Inghilterra ha organizzato la più grande delle manifestazioni calcistiche che si sia mai visto. L'occasione l'ha fornita quel festival britannico che si celebra una volta ogni cento anni, e per riunire le folle il calcio ha messo assieme una manifestazione la cui importanza e grandiosità può essere meglio di ogni cosa rappresentata da queste cifre: circa cento squadre in competizione, di cui più della metà non britanniche, venti Paesi diversi rappresentati e una quantità di incontri internazionali veri e propri fra i più interessanti che gli appassionati del calcio possano desiderare. Qui si dice che questa manifestazione valga di più di due olimpiadi o di due campionati del mondo messi assieme e l'affermazione non appare esagerata se si pensa che ad essa concorrono rappresentanti di squadre nazionali e di squadre di società assieme. Sono qui per esempio quasi tutti i giocatori jugoslavi che hanno giocato contro l'Italia domenica scorsa, ripartiti nelle tre squadre di origine - Dinamo, Stella Rossa e Partizan -, è qui la squadra nazionale francese che dovrà fra venti giorni giocare contro l'Italia a Genova ..." [La Stampa, 9 maggio 1951].

Non era trascorso nemmeno un anno dalla disastrosa spedizione albionica in Brasile; il prestigio dei maestri era ancora grande, ma in considerevole ribasso. E difatti, nella prima giornata di incontri, pochi giorni dopo la conclusione della First Division, di questo declino arrivò un immediato e chiaro segnale. Il Tottenham, conquistato il suo primo titolo nella stagione in cui era tornato a frequentare il torneo principale dopo anni di purgatorio nella Second Division, era superato a White Hart Lane dall'Austria di Vienna. Uno smacco. Nei giorni successivi, il Derby County verrà inchiodato sul pari dal Borussia Dortmund, e lo stesso accade al Liverpool contro il Saarbrücken, al Newcastle contro lo Stade Rennais, al Leeds contro il Rapid, allo United contro la Stella Rossa. Non delude invece il Fulham, che ottiene un bel 3-1 sulla Dinamo di Zagabria.

Il vero clou del festival era però fissato a Wembley per il pomeriggio del 9. La selezione di un grande paese sudamericano accettava di misurarsi con gli inventori del gioco, evento sempre rinviato. Per la prima volta, si affrontavano Inghilterra e Argentina. Confronto inedito, affascinante. L'Albiceleste, peraltro, non veniva in Europa dal lontano 1928, quando partecipò alle Olimpiadi di Amsterdam. "L'incontro fra l'Inghilterra e l'Argentina può diventare un episodio importante per l'indirizzo definitivo del calcio mondiale. Gli argentini sono infatti fra i pochi che ancora difendono la bandiera del metodo. Essi vengono in un paese in cui i difensori del sistema vanno ogni giorno più perdendo terreno, accusati come sono di essere i veri colpevoli del decadimento del calcio britannico" [Vittorio Pozzo, cit.]. Scontro ideologico-calcistico, secondo Monsù Poss. Confronto tra modi di giocare ormai superati, sostiene Martin, esperto de L'Unità. Interessante il suo reportage apparso sul quotidiano comunista il giorno della partita [qui], tutto funzionale alle conclusioni.

"Per il Festival britannico oltre le numerosissime partite tra squadre di clubs sono state organizzate alcune partite internazionali tra la nazionale inglese e diverse compagini estere tra cui fa spicco quella argentina. Inghilterra-Argentina si gioca oggi a Londra e l'attesa tra gli sportivi della capitale britannica è vivissima. Forse ingiustamente questo incontro è stato definito l'incontro n. 1 del 1951 e alcuni giornali amanti delle frasi d'effetto l'hanno chiamato «l'incontro del secolo». L'Inghilterra sta attraversando un periodo di crisi e non per niente in questo ultimo anno calcistico le è accaduto di subire dei duri rovesci, prima al campionato del mondo e poi in casa propria, dove prima è stata sconfitta dalla Scozia e poi ha pareggiato con la Jugoslavia. Dopo un cinquantennio e oltre di indiscussa superiorità e dopo aver battuto in casa propria i diciassette avversari dell'Europa Continentale che le si erano presentati contro, l'Inghilterra quest'anno si è arrestata. Già nel '49 aveva dato segni di essere in declino e con noi aveva ben faticato a vincere. Ora i tecnici anglosassoni contro l'Argentina sono ritornati all'antico; hanno scartato la maggior parte dei giocatori giovani che avevano inserito nell'undici nel '49-'50 e hanno rispolverato quasi tutti i giocatori che avevano fatto parte delle formidabili compagini che avevano mietuto allori su allori nel 1948.
Anche in Inghilterra il professionismo ha finito per fiaccare la coscienza del pur valido e forte, per tradizioni e competenze, gioco inglese. I «clubs» preoccupati dell'alto costo dei giocatori legati da quasi inscindibili contratti, travagliati da tutti gli ostacoli antisportivi che genera il mercantilismo nello sport, non hanno fatto grandi passi avanti. Il sistema, che è una creatura del calcio di Oltre Manica, non ha più avuto modifiche, non ha subito evoluzioni e si può dire che nazioni giunte assai dopo al calcio moderno come l'Ungheria, l'Austria, l'Unione Sovietica hanno ormai superato l'antica maestra.
L'Argentina ha una squadra eterogenea dove vi sono i campioni di squadre assolutamente metodiste e altri che appartengono a sodalizi che da circa un anno, come il Racing, sono passate all'esperimento sistemista. In tutti i giocatori sud-americani, però, prevale nettamente il gioco individuale fatto apposta per estasiare le platee e perciò raramente le comitive di laggiù danno dimostrazioni di bel gioco collettivo. A Londra, dunque, si vedranno sistemisti anzianotti anzichenò, dal gioco sistemista un po' stantio, contro i maestri del dribbling e della stoccata. Per gli argentini che preparano il tiro a rete con mille inutili fronzoli, che hanno l'abitudine di incubare l'azione decisiva con lunghe pause esibizionistiche, non sarà molto facile oltrepassare la rigida barriera sistemista degli anglosassoni che da parte loro, imbozzoliti nei vecchi schemi, con una squadra anziana, faranno cosa potranno. Le due squadre sono l'espressione di nazioni che sportivamente sono un po' ferme, che non hanno capito che ormai il calcio si è talmente evoluto, che è diventato una specie di scienza, di matematica e non per niente in Ungheria e nell'URSS sono stati stampati numerosissimi manuali in cui il gioco è trattato come una materia scientifica e gli allenatori frequentano difficili e lunghi corsi di preparazione e innumerevoli sono i medici, i laureati che si dedicano al delicato mestiere di allenatore e di tecnico".

Insomma, altro che "incontro del secolo": quello che andrà in scena a Wembley è da considerare un confronto tra scuole ormai superate. Calcio obsoleto.

Come fu la partita? Sentiamo Monsù Poss [La Stampa e Stampa Sera, 10 maggio 1951].

Billy Wright e Norberto Yácono

"L'Argentina, uno dei paesi più evoluti del mondo in fatto di giuoco del calcio ha fatto, come studio e confronto con il calcio inglese, l'esperienza di coloro che l'hanno preceduta. E' così. In fatto di sport le esperienze degli uni non servono agli altri. Ognuno vuol venire a vedere, ognuno vuole toccare con mano e sentire sulla pelle propria l'emozione di certe differenze e la staffilata di certe cose impreviste. L'ambiente di ieri era il più tipicamente inglese che si possa immaginare. Aveva piovuto tutta la notte, quella pioggia lenta, continua, uggiosa, che penetra nel terreno e nelle membra di chi ci va su. Dai fuochi a carbone accesi negli alberghi e nelle case. Molto gradevole. Fuori aria fredda, e umidità dappertutto. Cessò di piovere proprio per la durata dell'incontro, come per non infierire esageratamente sugli ospiti. E il terreno dello stadio di Wembley sul quale non si giuocano se non gli incontri di eccezionale importanza era in buone condizioni ... soffice di quel tanto che bastava per mettere a dura prova la muscolatura di gente che già l'umidità si sentiva addosso. Nel secondo tempo erano tutti come paralizzati, gli argentini. Risentivano tutti di quegli indolenzimenti agli attacchi dei muscoli, al di sopra della caviglia, che sono i parenti prossimi dei crampi di cui si erano lamentati tanto i nostri giuocatori la prima volta che avevano dovuto operare in quelle condizioni. A qualcuno era avvenuto di peggio: aveva dovuto andarsene - o restare in campo inutilizzato - per lesioni alle giunture o alla muscolatura. Per di più la struttura atletica dell'undici messo in campo dall'Argentina era davvero piuttosto modesta. Quasi tutti gli uomini erano superati in statura e in robustezza dai loro avversari diretti. Tutti lo erano in fatto di durezza delle ossa. Loustau e Labruna sulla sinistra dell'attacco scomparivano quasi nei contatti con gli oppositori. Un complesso di inferiorità fisica che produsse, come prima cosa, la scomparsa della prima linea a un certo punto dell'incontro. Non fu che in linea puramente tecnica che gli ospiti poterono dire la loro parola, dimostrando chiaramente che in altre condizioni di ambiente ben diverso sarebbe stato il loro rendimento. Per questo il loro contegno merita ogni rilievo e apprezzamento sotto il punto di vista morale, che è quello di una squadra che avendo il vantaggio nelle mani se lo sentiva sfuggire, perché gradualmente le dita più non rispondevano alla volontà e cedevano allo sforzo. L'italo-argentino Stabile, che ha la responsabilità tecnica della squadra, queste cose le sa e le ha viste. E' un uomo intelligente che conosce il giuoco e continua a studiarlo. Si lamenta della Colombia che gli ha portato via le pedine più preziose fra cui tre centravanti - proprio la posizione che è rimasta maggiormente allo scoperto -, tre centravanti di gran classe e di età decrescente: Pedernera, Pontoni e Di Stefano -, ed ha paura che non sia finita".

Harald Hassal all'assalto della porta argentina

"Per ottanta minuti su novanta gli argentini di Stabile hanno potuto sperare, e magari credere, di poter battere, loro per primi, l'Inghilterra su suolo inglese in giornata dal tempo inglese. Mancavano dieci minuti al termine dell'incontro ed essi vincevano ancora, per il margine di una sola rete, ma vincevano. Aveva segnato al 17° minuto del primo tempo Mario Boyé, proprio lui, il fuggitivo di Genova, e quello che più conta aveva segnato di testa, proprio lui che annovera fra le sue deficienze quella di non sapersi servire che molto imperfettamente della parte superiore del corpo. L'azione era stata bella ed avvincente, anche se a dare il successo agli ospiti aveva contribuito un elemento di errore del portiere avversario. L'ala sinistra Loustau, avanzando in corsa, aveva servito in profondità la sua mezz'ala Labruna; questi aveva attratto su di sé il terzino inglese Ramsey, e prima di essere raggiunto dall'avversario aveva centrato alto, evitando anche Williams che, intuito quanto stava per avvenire, gli era uscito incontro ed era rimasto a terra. A Boyé, che gli si era precipitato davanti, altro non rimaneva che allungare il collo e deviare la palla nella rete sguarnita. Su quell'uno a zero si imperniò tutta la partita. Gli argentini avevano il vantaggio nelle mani e dovevano difenderlo. Come vedremo, si erano poco per volta, anche costretti dalle circostanze, ridotti a poco altro se non a difenderlo. Stabile aveva finito per mettere in campo la mezz'ala destra Mendez [recte Menéndez] contando di poterla eventualmente sostituire, secondo gli accordi intervenuti. Poco dopo la mezz'ora invece il terzino destro Colman si produceva una distorsione a un piede, e quello andava sostituito sul serio, e subito. Entrava al suo posto Allegri. E Mendez, a posto o non a posto, continuava. Nel quadro generale degli scambi, l'Argentina cominciava allora a calare e l'Inghilterra a crescere, e alla metà tempo si giungeva sull'uno a zero a favore ancora degli ospiti. Non appena iniziata la ripresa la serie delle disavventure dell'Argentina si riapriva. Era il centroavanti Bravo che cadeva a terra vittima di uno strappo muscolare. Il giocatore si rifugiava, quasi immobilizzato, all'ala destra, ed al suo posto veniva al centro Boyé. La intensità di gioco degli inglesi cresceva ad ogni istante fino a trasformarsi in un vero assedio. E la porta degli argentini sfuggiva miracolosamente alla capitolazione in una serie impressionante di occasioni. Pali, parate eccezionali di Rugilo, concorso palese del caso, tutto concorreva a tenere vivo il vantaggio di chi l'aveva acciuffato nel primo tempo. Fino a che il portiere argentino riceveva una testata nella bocca dello stomaco. Continuava, comunque, e l'Argentina si attaccava disperatamente al filo di speranza che la legava al successo".

Miguel Armando Rugilo: la sua espressione non è rassicurante

"Di minuto in minuto l'Argentina calava e l'Inghilterra cresceva; ogni tanto il portiere dei sud-americani cadeva a terra e necessitava dell'aiuto del massaggiatore per riprendere. A dieci minuti dal termine Rugilo si produceva in una parata alta e lunga che aveva del miracoloso. Cadeva, si rialzava e su calcio d'angolo provocato dalla sua prodezza e tirato da Finney veniva battuto dalla testa del tanto noto in Italia Mortensen. Il gioco continuava e pochi minuti dopo anche la soddisfazione del pareggio sfuggiva loro dalle mani. Era Milburn che segnava irresistibilmente. Gli inglesi, che avevano avuto sino a pochi minuti prima una gran paura, vedevano capovolta la situazione e traevano un gran sospiro di sollievo. Per gli argentini era, al contrario, il crollo di un sogno. Troppo bello questo sogno. L'intera squadra reclinava il capo in mestizia, e noi spettatori neutrali, pur riconoscendo che il risultato era giusto e che la tecnica faceva bene a esprimere in quel modo la sua parola decisiva, non potevamo fare a meno di simpatizzare con quei figli di italiani, con quei rappresentanti della nostra razza che di tanto sfortunato valore avevano dato prova. Erano avviliti, in spogliatoio, Jacono e i suoi compagni. Ma la vittoria nella giornata era stata la condizione fisica a riportarla. I piccoli argentini, usi al clima caldo e ai terreni leggeri, s'erano trovati ad urtare contro questa gente dura, forte, decisa, atleticamente più attrezzata di loro. Come contro un muro. Poco da fare. Avevano fatto fin troppo su quel terreno molle, in quella umidità, essi che quasi non giocano in casa loro quando piove. Alla fine gli inglesi andavano più forte che all'inizio, contro gente ridotta sulle ginocchia. Questo spiega tutto, tutto quello che in questo breve resoconto non può essere altrimenti raccontato".



L'imbattibilità interna degli inglesi contro gente venuta da fuori dell'isola era salva. Gli argentini restavano nel loro limbo, e ci resteranno per molti anni ancora, nonostante i loro innumerevoli assi. E il calcio albionico si illuse d'essere ancora, e di poter continuare ad essere, inarrivabile per tutti. Altre delusioni erano in agguato. 

Sorpresa al Prater

Wilhelm Miklas, presidente della Prima repubblica austriaca,
saluta il suo Team

6 maggio 1936


L'ultimo sussulto del Wunderteam, e in sostanza del grande magistero di Hugo Meisl, si ebbe il 6 maggio 1936 al Praterstadion, dove il WM inglese fu sbaragliato da un fantastico primo tempo degli austriaci. Testimone del match, naturalmente, Vittorio Pozzo. "Il giubilato e tanto deprecato Sindelar era tornato a prendere il comando dell'attacco. E l'attacco stesso era tornato a giuocare secondo lo stile viennese del buon tempo antico, quello che imperava e mandava in sollucchero la folla prima che la teoria calcistica del 'doppio vi' venisse ad avvelenare l'ambiente". Era però una nazionale inglese di valore non eccelso, che pochi giorni dopo verrà sconfitta anche in Belgio.


Vienna, 6 notte.


Anche qui, l'Inghilterra è battuta. Su quello stesso campo dello stadio municipale di Vienna dove poco più di una anno fa gli azzurri conobbero la vittoria, gli inglesi hanno dovuto piegare il ginocchio.
Il successo della nazionale austriaca fu dovuto ad un primo tempo ottimo come slancio, velocità e condotta tecnica. Due punti segnarono gli austriaci nei primi quarantacinque minuti senza che Platzer, il loro portiere, avesse a che fare con tiri veramente difficili. L'Austria aveva messo in campo una squadra composta da reclute ed in parte di «richiamati» delle classi più anziane. E' proprio vero che c'è posto per tutti nel mondo.

Hugo Meisl segue la partita dalla sua trincea
Il giubilato e tanto deprecato Sindelar era tornato a prendere il comando dell'attacco. E l'attacco stesso era tornato a giuocare secondo lo stile viennese del buon tempo antico, quello che imperava e mandava in sollucchero la folla prima che la teoria calcistica del «doppio vi» venisse ad avvelenare l'ambiente. I cinque attaccanti austriaci giuocarono in linea, senza riserve o retrocessioni degne di menzione. Tutti e cinque proiettati in avanti alla ricerca del successo. L'inusitato sistema mise in serio imbarazzo i difensori inglesi. I loro tre terzini diedero subito chiaramente a comprendere che il dover fronteggiare cinque avversari invece di tre era qualche cosa di troppo, per essi.

Il marchio al primo tempo fu impresso da questa danza di tipico stile inglese che i cinque attaccanti ballavano attorno ai difensori di oltre Manica. Palla a terra, giuoco basso, finte, combinazioni strette, in cui facevano ogni tanto capolino improvvisi allunghi in profondità e repentine varianti a giuoco largo: questo il repertorio dell'avanguardia austriaca. In simile giuoco, Sindelar brillava. Al 10' minuto era proprio Sindelar che, evitando con una fulminea giravolta un difensore inglese, serviva la propria ala sinistra e questa spediva il pallone in rete da pochi metri. 
Pochi minuti dopo era ancora Sindelar che serviva in profondità, dietro la schiena dei terzini, la propria mez'ala destra. Sagar, visti battuti i compagni di difesa, usciva di porta e Stroh [recte Geiter] spediva senza difficoltà la palla nella porta indcustodita. Due occasioni ebbero gli ospiti di segnare. In ambedue, Camsell, loro centro attacco, fu fermato fallosamente.

Come andarono le cose, Platzer non ebbe, in questa prima metà dell'incontro, che a bloccare palloni alti, a sbrigare situazioni rese intricate da mischie, o a allontanare pericoli derivanti da calci d'angolo.
Alla ripresa le cose cambiaro dopo breve tempo d'aspetto. Qualcuno, nella squadra austriaca, cominciò a risentire dello sforzo, e gli inglesi presero a dominare. Al 10° minuto un tiro proveniente da lontano, ma pieno di una forza spettacolosa, colpì uno dei montanti della porta difesa da Platzer. La palla ebbe un rimbalzo violento, e mentre il portiere austriaco , rialzatosi dal primo tuffo, tentava di scattare per un secondo, Camsell riprendeva di testa e spediva in rete, proprio sotto alla sbarra trasversale.
Con lo svantaggio ridotto ad un solo punto, gli inglesi continuarono rabbiosamente nell'offensiva senza però ottenere nessun ulteriore risultato concreto. Di tanto in tanto gli austriaci ritornavano all'attacco, ma la voce dei cantori non era più quella. I cinque uomini di punta non mostravano più la stessa coesione del primo tempo. Le due mezz'ali, come se la tema di perdere il vantaggio conseguito avesse loro fatto cambiare d'opinione sulla teoria dell'attacco in linea, stavano in posizione arretrata e Bican, principalmente, mostrava imprecisione. Da parte sua, Sindelar non poteva più prendersi licenza alcuna: non gli si concedeva spazio in cui manovrare, lo si teneva stretto come in una morsa; così, la seconda parte del secondo tempo divenne la partita delle due difese, ed il risultato più non subì cambiamenti.

Giudicata sulla prova del primo tempo, sul suo periodo migliore cioè, la squadra austriaca mostrò di non essere affatto in preda a quel decadimento di cui tanto si parlava. Quel primo tempo che vide i due terzini dell'Arsenal ballare come una nave in tempesta, ed i mediani e le mezz'ale inglesi tagliati continuamente fuori di azione, fu schiettamente bello. Se più tardi la squadra austriaca, che ha ritrovato un Platzer ed anche un Sesta in piena forma, più non poté fare quello che volle, il motivo è da ricercare nel fatto che una intelligenza operava anche dall'altra parte: una squadra giuoca sempre, quando entra in opera l'intelligenza, come l'avversario le permette di giuocare. Sta di fatto che la nazionale austriaca, che pur essendo priva di parecchi dei suoi uomini migliori, come Smintik, Zischek e Huhnreuter, ha battuto sul suo vero valore continentale la squadra d'Inghilterra, costituisce veramente un ostacolo ben difficile da superare.
La giornata ha senz'altro ridato forza, morale, entusiasmo al calcio viennese.

"La Stampa", 7 maggio 1936
Tabellino della partita