Quando la domenica l’Italia sognava

di Edmondo Berselli

Il 2 maggio 2006 i giornali italiani cominciarono a pubblicare estratti delle intercettazioni di Luciano Moggi e della sua rete di accoliti. L'Italia fu travolta da uno dei maggiori scandali legati agli interessi economici gravitanti intorno al mondo del calcio. A caldo, in quei giorni, "La Repubblica" dedicò un suo "Diario" alla corruzione dello "sport più amato" [vedi]. Edmondo Berselli ne elevò un'ispirata apologia, che riproponiamo nel giorno, 24 marzo 2015, in cui i principali processi penali di "Calciopoli" si sono finalmente conclusi in Corte di cassazione certificando il reato di "associazione per delinquere" e "frode sportiva" di Luciano Moggi & C.

L’oggetto è sferico, di cuoio marrone: tutti lo conoscono come "il pallone numero 5". Va trattato con cura, ripulito dal fango, nutrito con il grasso di foca, protetto gelosamente dai vicini vendicativi e dalle guardie comunali, gli efferati custodi di ogni divieto. Per i bambini degli anni Cinquanta, che lo prendono a calci su campetti spelacchiati, è un simbolo, un tesoro, la cosa più preziosa. In quel lungo momento storicamente quasi immobile, nel tempo in bianco e nero della memoria, il pallone e le sue traiettorie rappresentano la sintesi di sentimenti ancora molto semplici, vissuti con una partecipazione essenziale. Mentre si imparano infatti parole meravigliosamente esotiche come tackle, dribbling, offside, si comincia a mettere timidamente piede sulle gradinate dei piccoli stadi di provincia, in una specie di apprendistato tecnico-sentimentale guidato dai padri. Ancora quasi emoziona, il ricordo di quelle domeniche in cui si celebra la festa laica del calcio: i biglietti strappati all’ingresso, la rete metallica intorno al terreno di gioco, i giocatori schierati al centro del campo per il virile, britannico saluto al pubblico sugli spalti, come avrebbe detto con la sua secca solennità un Nicolò Carosio. Li senti gridare, gli "atleti", anche se il regolamento vieta di chiamare il passaggio. Si sente anche l’eco sonora del pallone colpito con forza, o la scia lieve di quando è accarezzato dal piede. E il lessico di ognuno di arricchisce di una terminologia affascinante, fatta di colpi di piatto, collo, interno: il tiro di esterno lo effettuano soprattutto i brasiliani, tipi estrosi che si manifestano per la prima volta alla coscienza collettiva nei Mondiali del 1958: visti nella finale contro la Svezia sui rudimentali schermi televisivi di allora, «tre giocolier di cioccolata, nel verde regno del caffè: sono Vavà, Didì, Pelè». Anche il refrain del Quartetto Cetra contribuiva a rendere favoloso l’ineffabile tocco carioca a quella cosa rotonda, "il cuoio", che il resto del mondo generalmente maltrattava. Sicché davvero il pallone numero 5 era un possibile punto di contatto fra continenti remoti: fra mentalità, tecniche, stili.

Luisito Suarez e le sue palle da cannone (n° 5)
Ce n’è voluto per distruggere quell’incanto. Sono stati necessari scandali, scommesse, squalifiche, bilanci falsi, e infine il colpo mortale della Cupola. Eppure nemmeno la scoperta della mafiosità intrinseca al campionato, neppure i tornei (forse) taroccati riescono a far dimenticare un sentimento di passione pura, magari a cominciare da un’angosciosa partita con l’Irlanda del Nord, "immaginata" grazie alla radiocronaca (sarà stata una qualificazione fallita per la Coppa Rimet). Così come niente riesce a far dimenticare splendori e miserie della Nazionale: il naufragio della spedizione cilena nel 1962, in un’edizione del Mondiale che tuttora ripropone all’infinito la finta a gamba secca di Garrincha e rivelò al posto dell’infortunato Pelè la nuova stella nera, il razzente Amarildo. Oppure le catastrofi coreane, a partire da quella di Middlesbrough nel 1966, quindi il fin troppo visto 4-3 sulla Germania, in Messico, quattro anni dopo. E il trionfo contro i tedeschi al Santiago Bernabeu di Madrid, l’11 luglio 1982, dopo un avvio di Mundial decisamente mortificante. Ma nella dimensione arbitraria della memoria i successi di squadra, fenomeni collettivi, lasciano sempre il campo all’immagine dell’individuo, del fuoriclasse a tu per tu con la "sfera". Perché il ricordo è spesso gratuito, selettivo, tecnicamente fazioso. Si potrebbero lasciare nell’oblio intere stagioni calcistiche a patto di riportare alla mente il talento capriccioso di Omar Sivori, che una volta scese in campo con la maglia della Nazionale, contro la squadra materasso Israele, con l’unico chiarissimo scopo di infliggere umilianti tunnel ai derelitti avversari: irridendoli, facendoli cozzare l’un contro l’altro come in una comica di Chaplin, mentre la palla veniva sottratta dalla suola arguta, da una originale e petulante finta del sinistro del Cabezon.

Questo, in sostanza, hanno provato a fregarci, Moggi e compagnia: la profonda verità – una verità innanzitutto ma non solo balistica – che c’era e ancora c’è nella violenza impressionante del tiro a volo di Gigi Riva; nel tocco talentuoso di Gianni Rivera, l’abatino che «quando tocca la palla, a San Siro fioriscono anche gli ombrelli». Più tardi, nel dribbling di Robi Baggio, una danza nel karma, alla ricerca di vite e palleggi precedenti. Perché di fronte al pallone, che nel frattempo è diventato a esagoni, a spicchi zebrati, e infine multicolore e "glam", e magari confezionato da piccoli schiavi, non contano nulla gli infingimenti, le astuzie diplomatiche, la politica. C’è, tanto per esemplificare, la verità inoppugnabile del lancio "da 40 metri" in cui è specializzato Luisito Suarez. Per tutta l’eternità il regista spagnolo eseguirà lanci infallibilmente di quella misura, una specie di esatta poesia materiale in quattro decametri. Così come il pallidissimo "Pablito" Rossi, genio opportunista, infilerà per tre volte il "magno Brasile" (come lo chiamava Gianni Brera) in ogni replay storico, uccellando la zona classica ma distratta dei brasiliani, e ogni volta punendo con la pesantezza dei gol la sufficienza dei loro difensori. E a proposito di replay nessuno dubita che anche Diego Armando Maradona sarà costretto a furor di popolo, e per sempre, a replicare il suo gol contro l’Inghilterra (Messico, anno 1986), sessanta metri corsi in dodici secondi, con sei albionici stecchiti in dribbling e il tiro finale che è una linea tracciata con melodrammatica forza del destino nella geometria dell’assoluto.

La "ruleta" di Zinedine Zidane a Francesco Totti
L’uomo davanti al pallone riesce a inventare configurazioni classiche, codificate da intere generazioni che le hanno perfezionate. Il "doppio passo" attribuito honoris causa all’ala bolognese Amedeo Biavati, sorta di gesto barocco che d’un tratto recupera una sua linearità fulminea. La "foglia morta" di Mariolino Corso, cioè il calcio piazzato tirato con una parabola mollemente perfida. E poi la "rabona" di Maradona, intreccio di gambe per fare di sinistro il cross che il manuale del calcio pretenderebbe di destro. La "ruleta" di Zinedine Zidane, un giro di valzer frenetico, alla Nureyev, con gli avversari che assistono alla sparizione e alla ridislocazione della palla e del danzatore. E così via, fino al "sombrero", pallonetto irridente sopra la testa dell’avversario, e addirittura al "cucchiaio", esercizio illusionistico perfettamente irresponsabile, con cui Francesco Totti mette a sedere l’Olanda, ai calci di rigore, dopo una partita drammatica. Nonché all’ultima meraviglia tecnica, l’assist che Ronaldinho confeziona mandando la palla in profondità da una parte mentre guarda ostentatamente dall’altra, per ingannare tutti. Con la scoperta della Cupola, con le prevedibili retrocessioni e gli sconvolgimenti nei campionati, sembra avverarsi infine l’incubo che aveva avvelenato le giornate di una volta: personificato, l’incubo, dal vigile urbano che sequestra il pallone o dal vicino sadico che lo buca per dispetto o stupida vendetta. Si sa che, allora come oggi, il pallone sgonfiato è una mezza tragedia, individuale e di gruppo: anche se adesso, vaccinati dalla maturità, sappiamo che la corruttela può distorcere tutto, fuorché sottrarci l’immagine di qualcuno, Sivori, Maradona, Robi Baggio, alle prese con un pallone; ma allora anche di un bimbetto qualsiasi, in uno spiazzo in periferia, pronto a colpire di collo interno, vedendolo quasi più grande di lui, un pallone numero 5.

"La Repubblica", 23 maggio 2006

Per la salvaguardia del calcio francese

Non firmato, su La Stampa del 30 ottobre 1929, compare questo 'sarcastico' pezzo dedicato al calcio dei nostri "cugini d'Oltralpe".


Lo Stade de France, ovvero lo Stadio Olimpico di Colombes
Una grossa novità ci viene da Parigi. Pensate che in pieno secolo XX mentre in tutte le nazioni del mondo civile, e forse anche presso i mori, si paga ... profumatamente per assistere a partite di calcio, che molte volte risultano poi scadenti come spettacolo, a Parigi, nella babilonica Parigi che è famosa per spillar quattrini, si è avuto nientemeno che un incontro internazionale con entrata libera agli spettatori. Niente biglietti a riduzioni, niente ... militari e ragazzi a metà prezzo ..., tutti a gratis, come nei giorni del bel tempo antico. Si vuol propagandare lo sport del calcio, nella capitale francese, ed attirare in qualunque modo la grande massa degli spettatori. Il pubblico si era stancato ormai di pagare fior di quattrini per assistere nella maggior parte dei casi alle vittorie dei teams stranieri; s'era stancato e disertava i campi. La cosa preoccupava i dirigenti dei clubs che invano allestivano programmi monstre. Allora si è presa la risoluzione, anche a quanto si dice per combattere il professionismo, di aprire i battenti e di chiudere le biglietterie. Ma il male evidentemente ha radici assai profonde. In Italia i campi sono rigurgitanti di pubblico anche per semplici partite di campionato e con prezzi da ... première all'opera, a Parigi, invece, anche pregando gli sportivi di ... accomodarsi, non si è potuto avere il «tutto esaurito» allo «Stade de Paris». Si calcola infatti che oltre ai quindicimila spettatori che presero posto nelle gradinate dello stadio, molte altre migliaia di persone avrebbero potuto intervenire. Ma l'esperimento non è che alla prima prova e può anche essere che i parigini s'adattino nelle seguenti a fare placidamente ... i portoghesi. 


Al cospetto del pubblico dei «senza biglietto» si sono incontrate le squadre del Racing Club e del First di Vienna. I giocatori, quasi disprezzando di dover dare spettacolo ad un pubblico che, per non avere pagato, non poteva accampar pretese, non si sono impegnati per nulla. I francesi avevano di fronte avversari troppo forti per permettersi di attaccare in prevalenza e gli austriaci, saliti in cattedra per spezzare ai nostri cugini d'oltr'Alpe il pane della scienza calcistica, hanno scherzato come può fare il gatto con il topo che è a tiro delle sue zampe. Poi, sguainate le unghie, il gatto ha ferito il topo e l'ha inchiodato per terra. Cosi. .. con fare blasé, come può il colosso che si rimbocca le maniche per prendere a scapaccioni il pigmeo, gli austriaci hanno piegato l francesi. Si era agli ultimi minuti e due goals sono finiti in rete per sanzionare una superiorità che il gioco aveva già ben messa in evidenza.

Monsù Poss, il collaborazionista (del CLN)

Su Paginauno, alcuni anni fa, Paul Dietschy affrontava il sempiterno tema delle relazioni tra sport e potere, tra football e dittature, tra calcio e fascismo [vedi]. Classificava Pozzo come "uomo d'ordine", non casualmente e contemporaneamente commissario unico della nazionale e giornalista su La Stampa. E lo catalogava anche tra le file dei 'trasformisti' (anzi, un fulgido esempio di trasformismo): Vittorio Pozzo, che si vantava di azioni partigiane, intonò a sua volta, al momento della ripresa delle attività calcistiche, la retorica della libertà ritrovata: "Comincia il Campionato" scriveva sulla Stampa del 14 ottobre 1945, “la cosa più desiderata dagli sportivi italiani. Se ne parlava, come di un sogno, al tempo della occupazione tedesca. Poter assistere ancora a un vero campionato italiano”. Certo, il biennio settembre 1943/ottobre 1945 valeva allora quanto un secolo, in termini di cambiamenti e di rovesciamenti della Storia e degli uomini. Ma Pozzo dava anche un’esemplare dimostrazione di una nuova forma di trasformismo applicata al campo sportivo, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il tecnico piemontese non fu neanche tra gli ultimi a ricordare le gloriose ore del passato. Ora che le strutture sportive del fascismo erano state più o meno conservate, a cominciare dal Coni – affidato a un giovane socialista dottore in diritto, Giulio Onesti – Vittorio Pozzo poteva vantare anche lo spirito delle vittorie dell’anteguerra. Il 6 aprile, dopo una vittoria (3-1) ottenuta a Parigi contro la nazionale francese, nel bel mezzo della situazione da guerra civile che circondava le elezioni politiche, sempre sulla Stampa scriveva: “Pareva di essere tornato allo stato d’animo dell’anteguerra, quando la squadra, a incontro terminato, affluiva tutta in una camera stretta, unita, affratellata e commentava l’operato proprio. Miracoli della maglia azzurra”./div>

Dunque, Pozzo "si vantava", sostiene Dietschy. Al quale forse era mancata la lettura dell'articolo pubblicato da Corrado Sannucci su La Repubblica, il 21 maggio 1993, e che qui riproponiamo.

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"Si dichiara che il Comm. Vittorio Pozzo ha collaborato fin dal settembre '43 con questo CLN [di Biella, ndr] con compiti di organizzare gli aiuti ai prigionieri alleati e il loro passaggio in Svizzera". E' uno dei documenti a sorpresa del "fondo" Pozzo che nei giorni scorsi il Ministro dei Beni Culturali, Alberto Ronchey, ha posto sotto tutela. A sorpresa perché il ct della nazionale campione del mondo nel '34 e '38 e olimpionica nel '36, negli anni dunque del fascismo trionfante, dei saluti romani prima della partita, è stato sempre considerato un uomo "compromesso" con il regime. Fu, di fondo, questa considerazione a impedire che il nuovo stadio di Torino non si chiamasse con il suo sportivo forse più rappresentativo. E fu questa sua fama, abbinata a un carattere chiuso e rigoroso, a isolarlo sempre di più negli ultimi anni della sua vita. 

L'Italia in ultimo lo trascurò grandemente: Pozzo, in fondo, anche se aveva avuto modo di allenare già nel '12, e di veder giocare atleti della preistoria del calcio, come De Vecchi e Caligaris, è morto "tardi", il 21 dicembre '68. Eppure, non è mai andato alla Domenica Sportiva. Strano che Tortora non ci abbia mai pensato: oppure ci ha pensato ma glielo hanno impedito. Pozzo, da parte sua, racconta il figlio Alberto che ha dedicato la vita alla difesa delle memorie del padre, non aveva mai posseduto un televisore. 

Sono diversi i documenti che testimoniano dell'attività dell'allora ancora ct della nazionale, nella zona del biellese, già nel settembre del '43. C'erano delle zone sicure dove i partigiani e i semplici fuggiaschi si nascondevano in quelle prime fasi della Resistenza. "Salivamo io e lui in montagna, alla Bessa, portando da mangiare" racconta ora Franco Chiorino, allora tipografo di una fabbrica "protetta" il che lo esentava dal militare. "In una circostanza dovetti nascondere Franco Bianco, un compagno che poi sarebbe morto a Mauthausen: Pozzo mi offrì di nasconderlo da suoi amici nel cuneese. Ma era un po' lontano. Non se ne fece nulla". 

Chiorino tentò nell' 80 di fargli dedicare una strada di Ponderano (dove ora Pozzo è sepolto): tentativo fallito per l'ostracismo che ha sempre circondato l'illustre concittadino. Sono numerose, invece, le lettere nel fondo, di partigiani e dirigenti del Cln che ringraziano Pozzo: come la testimonianza del giugno '45 di Aldo Blotto Baldo, dirigente del Cln di Biella, "per il suo disinteressato attivismo" (ma Pozzo fece anche il ct per 19 anni senza essere pagato). 

Aiuti e gesti significativi in un uomo così popolare, che poi sarebbe stato arrestato dai tedeschi per una risata. "Arrivarono in paese qui a Ponderano. Per spregio al re Umberto I ordinarono di staccare la targa di smalto della piazza: ma sotto, scritto a vernice c' era il nome di Vittorio Emanuele II. E mio padre rise: il tedesco no". 

Uno di quei ragazzi nascosti tra i sassi era Franco Ferrarotti, preside della facoltà di Sociologia a Roma, allora gappista sedicenne con eterno bisogno di nascondersi tra una missione e l' altra. "Dal mondo dello sport sono sempre venuti aiuti esemplari, in quei giorni. Secondi solo ai sacerdoti e ai contadini", ricorda ora Ferrarotti, che incontrò più volte Pozzo nel dopoguerra. "E ora sarei felice se la sua figura venisse riconsiderata come merita". 

Il figlio di Pozzo, Alberto ricorda gli episodi, sportivi, di frizione con il regime. Quando fu rimproverato dai gerarchi perchè aveva raccontato all' Eiar le aggressioni subite in un Jugoslavia-Italia del '39; del tentativo di far rigiocare De Prà, portiere genoano, che era stato messo all'indice dal regime (un veto che aveva ereditato quando arrivò a guidare la nazionale nel '29); l' indipendenza di fondo nelle scelte dei giocatori. "Ma il fatto che fosse fascista" dice ora Alberto "è uno dei tanti travisamenti che ha circondato la vita di mio padre. Come la favola che facesse cantare 'Il Piave mormorò' ai giocatori prima delle partite. Una balla". 

Certo, non era un rivoluzionario. Il figlio lo definisce un churchilliano, un monarchico-liberale. L'uomo che identificò uno per uno i cadaveri dei giocatori sulla collina di Superga, però, avrebbe meritato, negli anni seguenti, diversa comprensione. La strada gliel'aveva aperta il lasciapassare rilasciatogli dal Comitato regionale Piemontese di Liberazione Nazionale, in data 2 maggio 1945. "Il signor Vittorio Pozzo può circolare liberamente": l' impressione è che questo (le sue idee) dopo non sia stato più tanto possibile.

"La Repubblica", 21 maggio 1993