Italia - Cecoslovacchia (10 giugno 1934)


Le cronache di Monsù
10 giugno 1934

"Il dovere compiuto". Così fu titolato il resoconto che Monsù dettò al suo giornale per la mattina di lunedì 11 giugno 1934. L'Italia aveva conquistato il titolo mondiale, sconfiggendo ai supplementari la coriacea Cecoslovacchia, nostra tradizionale avversaria di quegli anni. La commozione e l'orgoglio per il lavoro svolto, l'affezione per i propri giocatori, il rispetto per gli avversari. Nel trionfo del regime, la voce di un vero uomo di sport non è di qualità letteraria, ma - appunto - suona priva di toni grevi.


Roma, 11 mattino
L'Italia ha vinto il Campionato del mondo. Lo ha vinto passando per una strada in tutto conforme a quella dovuta forzatamente seguire nei quarti di finale e nelle semifinali: quella dell'incontro tipo combattimento. Tanto ardente, tanto accanito questo combattimento da sfiancare e da stroncare metà degli uomini in campo e da rendere necessari i tempi supplementari per determinare un risultato.

Doppia fatica

Di gare facili non ve ne fu nessuna per nessuno in questa edizione del Campionato del mondo; ma l'Italia fu, senza alcun dubbio, la nazione che trovò sulla sua strada le maggiori e le più ardue difficoltà. Spagna, Austria e Cecoslovacchia furono tre autentici macigni da rimuovere, tre ostacoli che diedero luogo alle tre partite più dure, più angolose, più difficili e più appassionanti di tutto il torneo. L'Italia non trovò certo la via cosparsa di rose. Né la sorte né il tipo di attività svolto dagli avversari la favorirono in nulla. Il tempo normale di gioco preventivato per una squadra che dovesse giungere alla finale era di 360 minuti e la Cecoslovacchia ne avrebbe effettivamente giocati 360 senza i prolungamenti dell'incontro di ieri: coi prolungamenti stessi essa arrivò a 390 minuti. La contendente esclusa dalle semifinali che giocò più di tutti fu l'Austria, con un complesso di 300 minuti, che sarebbero saliti a 390 nel caso di qualificazione alla finale. Ora la squadra italiana collezionò un assieme di 510 minuti di gioco fra gli ottavi di finale, i quarti di finale, i tempi supplementari, la ripetizione dell'incontro, la semifinale, la finale e i nuovi tempi supplementari. Il che vuol dire che gli «azzurri» giocarono, in quanto a tempo, quasi due campionati, mentre gli avversari ne giocarono uno. Minuti 530 di gioco, dei quali 420 di lotta dura, accanita e snervante.
Fu un piccolo calvario, quello attraverso al quale dovette passare la squadra italiana per giungere al successo. Ieri ancora quella compagine cecoslovacca che non aveva, non diciamo entusiasmato, ma nemmeno impressionato nessuno nel corso del torneo, tirò fuori le unghie e sfoderò uno stile di gioco e un tipo di combattività da lasciare di stucco gli scettici. Dura, angolosa, coriacea, la rappresentativa del calcio boemo non ammise per un istante solo di poter essere sconfitta. Essa non ne volle sapere di morire, di cedere nei tempi regolamentari dell'incontro. Ci vollero i tempi supplementari per ridurla sulle ginocchia. Quando piegò fu essenzialmente per mancata resistenza al tremendo sforzo dei velocissimi 120 minuti di gioco. 
Bella compagine, quella boema. Essa ha l'unità e la coesione garantite dal fatto che tutti gli elementi che la compongono provengono da due sole squadre: sette uomini dello Slavia e quattro dello Sparta di Praga. Essa ha l'esperienza, l'abilità, la scaltrezza assicurate dall'anzianità dei suoi giocatori; tutti elementi di lunga carriera internazionale, tutte volpi vecchie, tutta gente che conosce il mestiere a menadito. 
Come gioco di squadra, come coesione pura, occorre dire che l'undici boemo fu superiore a quello italiano in notevoli periodi dell'incontro. 
Vi fu un momento del secondo tempo in cui i cechi soggiogarono quasi i nostri rappresentanti con la loro attività, basata su trame minute e passaggi fitti. A metà campo manovravano e avanzavano in modo da rappresentare una seria, serissima difficoltà il fermarli. Aveva il suo tallone d'Achille, questo tipo di attività, nel fatto che il gioco veniva eseguito prevalentemente in linea, e con caratteri di uniformità e monotonia quasi. Sempre la stessa cosa, sempre la stessa impostazione, sempre la stessa esecuzione. Quando i nostri, scossi dal risultato avverso, e superato il periodo di depressione nervosa, partirono alla riscossa, quella chiave della situazione di cui essi si erano impadroniti studiando l'operato dell'avversario permise subito di neutralizzare quasi completamente il lavoro architettato dai boemi. 
Ma l'unità cecoslovacca è di elevato valore tecnico. Il suo capitano e portiere è, non nel fisico ma proprio nel valore tecnico, un colosso. Lo si diceva in decadenza. Ieri egli lasciò a un certo momento l'impressione di essere altrettanto imbattibile quanto era apparso Zamora nel primo incontro di Firenze. Fu la sorte degli «azzurri» nel campionato del mondo in quanto a portieri, questa: sfuggiti dalle grinfie di Zamora, capitare in quelle di Platzer; evitato Platzer, cader nelle mani di Planicka. Grande portiere, dalle grandi risorse, Planicka! Ci vollero le due fucilate formidabili di Orsi e di Schiavio per costringerlo a capitolare.
I due terzini hanno una loro fama particolare di lunghi anni in fatto di energia e decisione. A questa fama essi fecero ieri onore. Meazza e Schiavio fecero le spese di questa decisione. Orsi, viceversa, e in parte anche Guaita, riuscirono a trovare il lato debole dei sistemi usati dai due — ché la decisione spesso confina o si trasforma in irruenza — e volsero la situazione a loro favore.

Il valore dei battuti

Della linea mediana degli ospiti il migliore fu, senza dubbio, l'uomo di centro. Si diceva che Cambal non era assolutamente in grado di reggere a 90 minuti di gioco filato. Ieri egli non tenne nei tempi supplementari, ma resse appieno nei tempi normali. E' un gran tecnico Cambal. Tecnico dal gioco stretto — che egli raramente distribuisce alle ali —, ma uomo dalle tendenze costruttive. Nulla in lui del gioco prudenziale da terzo terzino in voga al giorno d'oggi, ma tutto, invece, del gioco fatto per sorreggere, aiutare, lanciare e dare idee all'attacco. Delle avanzate boeme Cambal fu ieri, nel primo e nel secondo tempo, uno degli strumenti più pericolosi. Ai tempi supplementari egli si mostrò fisicamente liquidato. 
Nessun rilievo speciale meritano invece i mediani laterali, giocatori privi di personalità. Dove personalità esiste è, invece, nella prima linea. Tre uomini emergono in essa: Svoboda, Nejedly e Puc, mezz'ala destra, mezz'ala sinistra e ala sinistra. Svoboda, il vecchio, pareva finito un anno fa. Più non compariva nemmeno nelle file della sua società. Aveva quasi cessato di giocare. Ci volle il Campionato del mondo per farlo rivivere. Egli fu a Roma l'intelligenza e la molla di propulsione dell'attacco. Furbo, scaltro, abile, tiene la palla in modo ch'è ben difficile portargliela via. Svoboda, che non ha e non ha mai avuto scrupoli sui mezzi da usare, fu, ieri, una vera fonte di grattacapi per la nostra difesa. Nejedly, al confronto, è più un esecutore che un pensatore. Egli fu sfortunato nei suoi tiri in porta, ma il suo tocco della palla é dei più sani. Esecutore puro fu l'ala sinistra Puc, il più veloce degli avanti boemi. Puc segnò il punto per la squadra e costrinse Combi ad alcune parate difficilissime. Una linea al di sotto del valore di una volta è l'ala destra, e di classe inferiore ai colleghi di attacco apparve l'uomo di centro, Sobotka. 
Contro simile avversario gli «azzurri» dovettero pensar seriamente ai casi loro per spuntarla. Essi chiusero il primo tempo col risultato di zero a zero, marcando,però, una leggera superiorità pur giocando contro vento. All'inizio della ripresa permisero che gli oppositori prendessero l'iniziativa e allora furono guai. Per una ventina di minuti vi fu seriamente da temere del risultato. La Cecoslovacchia segnò, per la prima quando Puc, ricevuto una volta tanto un passaggio in profondità, avanzò di alcuni passi e sferrò subito un forte tiro all'angolo basso sulla sinistra di Combi. Poco mancò, ancora, che il vantaggio degli ospiti venisse aumentato, quando Combi potè deviare contro il palo un forte tiro alto ed allontanare il pericolo subito dopo. 
Ma da quel momento la squadra nostra si rimboccò le maniche. Il punto di Puc fu come la buona frustata sul buon cavallo. Ci voleva quella ferita all'amor proprio, quell'odore del rischio supremo per far saltar fuori le doti fisiche e morali accumulate dagli uomini nel periodo di preparazione.

Bravi "azzurri"

La riscossa degli «azzurri» fu esemplare di forza e volontà. Ondate su ondate di attacchi si abbatterono su Planicka da parte di una prima linea a cui il cambiamento di posizione fra Guaita e Schiavio aveva dato nuova forza di impulso. Quando Orsi con una azione personalissima coronata da un tiro superbo di forza e precisione riuscì nel pareggio, ogni apprensione per il risultato finale scomparve subito. Era chiaro che, a meno di una disgrazia, non si poteva perder più. Tuttavia i boemi ebbero ancora due o tre occasioni fra le più pericolose proprio quando le cose parvero per la Italia al sicuro. Fu Combi che in quel frangente salvò la situazione. 
Poi venne il punto di Schiavio, frutto di una azione concorde con Guaita. Una cannonata, quella del bolognese. Planicka toccò la palla, ma non la potè fermare, tanto forte fu il tiro, e da allora i boemi più non riuscirono ad essere veramente pericolosi. 
Grande giornata di Orsi, quella di ieri. La nostra ala sinistra fu, assieme a Planicka, uno dei migliori uomini in campo. Il resto della squadra va accomunato in una gran lode per il fiero comportamento tenuto, anche se talora si mostrò scentrata e nervosa.
Era in periodo di depressione nervosa, la squadra nostra, dopo la terribile settimana scorsa, la settimana dei quattro incontri in otto giorni e dei 300 minuti di gioco in quattro giornate. Dopo la tensione era sopraggiunto il rilassamento dei nervi. Cosa naturale per chi ha vissuto la vita dei nostri atleti. Occorreva appunto quello che i dottori chiamano il «colpo di staffile» ai nervi per far tornare l'organismo al suo rendimento. Ed esso vi ritornò in modo convincente e grandioso.
Dal punto di vista passionale il campionato del mondo non poteva avere epilogo più degno. Folla straordinaria; gioco vario, veloce, tecnico a sprazzi, a tratti anche risplendente di bellezza; pericolo degli italiani di vedere a un certo momento rovinato il lavoro di quaranta giorni, pronta reazione, ristabilimento della situazione, successo. Fu una specie di apoteosi del gioco del calcio, coi giocatori nostri commossi fino alle lagrime, con la folla pazza dalla gioia, col Duce esprimente a pieno viso e a piena voce la sua soddisfazione. 
Maschio comportamento quello degli «azzurri». Il successo da essi raggiunto costituiva la più alta ricompensa a cui potessero aspirare, la più elevata ambizione che potessero nutrire. Il successo stesso è stato afferrato. Esso premia la serietà, la fermezza morale, lo spirito di abnegazione, la ferma volontà di un plotoncino di uomini che, per degnamente difendere i colori d'Italia, non ha esitato a segregarsi dal mondo per quaranta giorni, privarsi di tutto, a piegarsi ad ogni disciplina. Nessuna squadra nazionale mai ha fatto quello che nel periodo della preparazione hanno fatto i nostri «azzurri». E' cosa sacrosantamente giusta che la vittoria abbia premiato la loro fatica. Si dica quello che si vuole: nessuna cosa supera al mondo la soddisfazione del dovere compiuto con coscienza, con fede, con caparbia anche se necessario, con studio, con prudenza, con successo. 
E' una soddisfazione profonda, intima, che compensa di tuttto.

Calcio sacro e calcio profano

Una pietra miliare nella storia del calcio. La vicenda è ormai arcinota, ma conviene riassumerne le fasi principali. Johannesburg, domenica 27 giugno 2010. Ottavi di finale dei Campionati Mondiali di Calcio. Partita Argentina-Messico, match equilibrato, spezzato al 25’ del primo tempo da una rete dell’argentino Tevez. Immediatamente dopo la segnatura, attimi di tensione, pesanti come blocchi di granito. I Messicani protestano per la rete convalidata: a loro avviso Tevez sarebbe in fuorigioco. L’arbitro italiano Rosetti, considerato fra i migliori del mondo, ha un attimo di indecisione e consulta il suo collaboratore più fidato, Ayroldi. Mentre i due si confrontano freneticamente, sul maxi schermo dello stadio si rivede al rallentatore l’azione: Tevez è in effetti in fuorigioco, il gol è da annullare, lo si vede. Probabilmente Rosetti ed Ayroldi vedono sullo schermo la ripetizione dell’azione, ma – tra lo stupore generale – convalidano la rete. Di fatto, la decisione degli arbitri è clamorosamente sconfessata dalle immagini. La Verità è però violentata dal Potere – degli arbitri, della Fifa –; la Giustizia è negata. Ma la democrazia televisiva rivela al mondo tale atto tirannico. Eppure la decisione è presa, non si torna indietro. Il Messico subisce un evidente torto, ma si va avanti.

27 Giugno 2010, Soccer City Stadium, Johannesburg
Roberto Rosetti e Stefano Ayroldi
convalidano il gol in fuorigioco di Carlos Tevez
Un capriccio di Eupalla. Un esempio di scuola. Un altissimo momento di teatro popolare. Un intrico sofisticatissimo di regole e discrezionalità, di voglia di protagonismo e forse altro ancora. Ipotesi e interpretazioni si sprecano. Le gazzette e le televisioni gridano allo scandalo. Un forte sentimento popolare chiede a gran voce l’introduzione dei mezzi tecnologici per controllare il gioco, aiutando anzi correggendo l’arbitro nelle decisioni più gravi. Il grande Occhio che tutto vede e regola e decide. A lui dobbiamo affidarci.

Ci sono in gioco troppi denari, sono implicate nazioni popolose e potenti, governi forti. Non si può sbagliare, non si deve più sbagliare. Queste sono grosso modo le motivazioni più diffuse, le emittenti televisive e gli altri mezzi di informazione fanno da cassa di risonanza. Il consenso sembra unanime. I pochi indecisi sono bollati come antiquati, gli oppositori come gli ultimi difensori della casta. Sono irrisi persino coloro che, pur essendo strenui paladini della tecnologia ne temono un’applicazione aristocratica, limitata agli incontri di alto livello e non estesa (per ovvie ragioni economiche e logistiche) a ogni campionato, anche minore, anche nelle più remote regioni del mondo. Non c’è spazio per altre motivazioni.

Capisco bene tutto ciò. Ma, io non ci sto. Le ragioni di tale opposizione sono tante, ma riconducibili ad una, la Tradizione, lo spirito originario del football. Una serie infinita di nuovi regolamenti, di modificazioni, di aperture, ha snaturato il regolamento originario. Il calcio di oggi è profondamente diverso anche solo da quello degli anni settanta. Tuttavia esso ha comunque mantenuto alcuni pilastri che ne delimitano e confermano la sacralità. L’arbitro non è la giustizia assoluta; rappresenta anche il destino, il fato. È uomo fra uomini, primus inter pares. Dunque può sbagliare, anzi deve sbagliare. Perché l’errore è la componente fondamentale del gioco. Una partita perfetta tra due forze uguali finirebbe in parità, forse 0 a 0 o 5 a 5, poco importa. Eppure spesso ciò non accade, per fortuna. C’è l’imprecisione dell’attaccante, la bravura del portiere, il refolo di vento improvviso, il terreno ghiacciato, la spinta impercettibile all'occhio  le scarpe inadatte, la rotondità del palo, e le concause e le variazioni sono infinite. L’arbitro, forse lo si dimentica, corre, osserva, giudica nel giro d’un lampo. Lo stesso del portiere che si allunga sulla sfera, lo stesso dell’attaccante che colpisce al volo anticipando il difensore. I limiti fisici sono gli stessi dei calciatori in campo, uguale la fatica, la tensione, l’affanno. Lo scontro è alla pari, anche contro il fato.

Lo spazio ed il tempo in cui sono immersi i protagonisti – arbitro e giocatori – è il medesimo. E tale deve restare, perché appunto è sacro, non può essere violato. Sono i mezzi televisivi a deformare il tempo, attraverso la moviola, la ripetizione, atto appunto innaturale. Così come lo spazio che è accorciato, contemporaneamente esplorato da più sguardi. Ciò non è naturale e dunque infrange il patto, la legge.

I mezzi televisivi hanno da tempo violato tale equilibrio. Hanno creato un nuovo, del tutto artificiale, spettatore. Esso non esiste in natura, ma è una pura creazione. Eppure esso si arroga il diritto di giudicare e di imporre nuove regole. Tale democrazia tecnologica è la morte del calcio, è la sua negazione filosofica. Il modello ideale, a ben vedere, sarebbe un match perfetto, controllato, senza errori, puramente virtuale. E come tale vendibile ovunque, senza alcune distinzioni, in modo oggettivamente democratico. Dopo gli arbitri, anche gli spettatori in carne ed ossa non saranno più indispensabili, e forse neanche gli stadi e poi perché servirsi dei giocatori? Molto meglio replicanti, così si potrà giocare sempre e ovunque. Il tempo e lo spazio e la natura saranno vinti. E qualcuno farà affari d’oro. No, io non ci sto.

Alb

Riva non è Mandrake

di Giovanni Arpino

L'attesa per l'esordio dell'Italia a Mexico '70 era soprattutto messianica attesa di Gigi Riva. Accreditato di sfracelli inenarrabili, era il simbolo e il trascinatore dell'Italia. Sappiamo come andò: polveri bagnate nelle prime tre partite, sprechi, nervosismo, altura, epifania continuamente rimandata. Il primo match fu contro la solida Svezia. Vincemmo senza brillare. Riva non segnò, e questo fu il dato principale restituito dalle prime pagine dei nostri quotidiani. Già. Ma Riva non è Mandrake, scrisse Giovanni Arpino. E di Arpino riproponiamo i due pezzi trasmessi a "La Stampa" dopo Italia-Svezia.




Riva non è Mandrake

Toluca, 3 giugno.
Il pronostico che ci include fra i favoriti dei mondiali è stato onorato dagli azzurri, ma è costato ai nostri giocatori abbastanza caro: la Svezia, sia pure tatticamente discutibile, ha lottato con una decisione che forse nessuno si aspettava, i gialloblù forti sul piano fisico hanno picchiato duro sulle caviglie dei nostri, che forse a tratti hanno avuto il torto di giocare con troppa souplesse. Resistenti e forti, Kindvall e colleghi hanno cercato di trasformare la partita in un fatto atletico.
Gli svedesi hanno dedicato tre uomini a Riva, troppi anche per un campione come il Gigi nazionale. Il cannoniere del campionato ha lottato con la solita grinta, Boninsegna è stato una valida e fedele spalla, Mazzola e Domenghini sono venuti spesso dalle retrovie a dare man forte alla coppia di punta. Tre difensori si sono dimostrati molti anche per un vero campione come Riva, che ha lottato con la forza della disperazione senza riuscire mai a trovare un varco veramente pulito in cui piazzare il suo famoso sinistro. Che Gigi fosse un asso lo sapevamo prima di oggi, ma sapevamo anche che non è Mandrake e non può fare miracoli; per fortuna che in qualche modo al suo fianco (non è il momento di rifare la storia dei «perché» e di certe situazioni) è stato posto Boninsegna, ma si è visto che anche due punte sono poche contro una difesa chiusa e decisa.
Gli azzurri non hanno certo giocato bene, ma con grande impegno questo sì e con un rigido rispetto delle consegne ricevute negli spogliatoi. De Sisti e Bertini non hanno quasi mai passato la metà campo come da ordini di Valcareggi e Mandelli; a far da spalla alla coppia di punta Riva-Boninsegna c'era una seconda coppia formata da Mazzola e Domenghini.
I nostri giocatori hanno superato bene l'handicap dell'altitudine (Toluca a quota 2680 è il più alto campo della Coppa Rimet), hanno saputo giocare alternando scatti a pause come è necessario per riprendere fiato, si sono insomma adeguati alle difficoltà ambientali, riuscendo anche a stringere i denti nel finale attorno al valido Cera, perno della difesa. Al di là del risultato un buon inizio per la nostra squadra; la Svezia ha voluto improvvisare un catenaccio gigante contro i maestri di questo gioco, e non poteva che finire male per i nostri avversari.

(La Stampa, 4 giugno 1970, p. 20)


Gli azzurri debbono imparare il calcio a tempo di “tango”

Toluca, 4 giugno.
«Olsson, el numero 20, no es futbolista, es un sanguinario», è stato il commento di un critico messicano che vedeva Riva malmenato dal difensore svedese. In effetti Riva, anche quando il pallone era ben lontano da lui, sembrava il contenuto di un sandwich, stretto da quell'Olsson che lo afferrava per braccia, maglia, spalle, e il libero svedese, appiccicato al collo dell'italiano come una sanguisuga. Lo si poteva prevedere. Riva è, per tutti, il numero uno in fatto di pericolosità in area (solo i brasiliani fingono di non conoscerlo) e quindi il suo marcamento strettissimo non ha costituito sorpresa. Sarà così ad ogni incontro.
Ma non è questa la sola lezione che ci viene da Italia-Svezia, partita combattuta all'arma bianca, tesa come una spada, rude fino alla protervia atletica. L'arbitro inglese Taylor, se ha favorito qualcuno, non ha certamente dato una mano agli azzurri. Le sue rigide interpretazioni sui falli e sulle conseguenti regole del vantaggio hanno sbilanciato varie fasi dell'incontro, qualche eccesso svedese non è stato punito con tempestività.
L'Italia ha vinto combattendo. Questo è molto importante. Ma l'incontro di Toluca, oltre a confermare l'omogeneità della nostra squadra e l'assenza di dannosi nervosismi, ha detto anche varie altre cose. Il gioco sudamericano è favorito, per esempio. Il «tango» del football giocato da fermi, a queste altezze, è un modo per sopravvivere fino al termine della partita. Chi azzarda troppo si brucia muscoli e polmoni, vede annebiarglisi la vista. Quindi è determinante governare le linee di gioco a centrocampo, non spremersi in corse successive, non pretendere di recuperare subito dopo una fuga. Abbiamo visto Domenghini addirittura boccheggiante sul finale della partita, pur essendo stato ottimo nel primo tempo. Anche Riva si è bruciato in scatti tremendi, di quelli che lasciano il segno. L'ordine nelle retrovie, dettato da uno splendido Cera e da un grande Burgnich (altamente sorretti da Bertini e Rosato) ha impedito agli svedesi un pareggio non impossibile.
Toluca afferma: la squadra azzurra esiste. Poche correzioni tattiche e una maggiore coordinazione manovriera a centrocampo potranno rinsaldare un «undici» non privo di possibilità. I primi ad affermarlo sono i critici stranieri, saliti a oltre 2600 metri d'altezza per esaminare con tutte le attenzioni Riva e compagni.
La Coppa Rimet, dopo un esordio in toni minori, sta erigendosi con le sue leggi spietate. Chi perde non ha possibilità di recuperi, gli incontri diretti si chiudono con risultati irrimediabili. Fa sensazione il Brasile, si continua a guardare al Perù come a una squadra imprevedibile. «Tanto pazzi da poter raggiungere qualsiasi risultato», dice uno che li segue da tempo, e parla degli incas peruviani come della rivelazione iniziale di questo torneo.
Dove arriveranno gli azzurri? Dopo Toluca gli umori sono più fermi, più contenuti, più responsabili. Anche i dialoghi interni si decantano, nel clan, prendendo punte polemiche e veleni autentici o inventati. Le squadre europee, allenate sullo scatto, sulla manovra rapida, indubbiamente soffrono questo torneo. Il football a duemila metri diventa un gioco diverso. E' come manovrare un aereo a reazione lungo un'autostrada o far volare un trattore. E' una sfida, una follia, e insieme uno stimolo nuovo. Vedere un giocatore piegarsi in due per riprendere fiato dopo una fuga di trenta metri è uno spettacolo nuovo, triste ma anche provocante. Perché provocante? Perché al giocatore (e ai suoi compagni di squadra, ai suoi tecnici) tocca inventare soluzioni tattiche e distribuzione di forze in una dimensione agonistica diversa.
C'è chi prevede una finale tutta sudamericana, un «doppio tango» di un'ora e mezzo, e c'è invece chi continua a credere nelle possibilità italiane, inglesi, tedesche. Si punta su molte incognite, dunque, e non si può pianificare a lungo il discorso su questa nona Coppa Rimet. I fatti umani, di resistenza fisica accoppiata all'invenzione e alla fortuna, sono troppi per delineare una fisionomia precisa del torneo. Tutti vivono alla giornata, anzi di tre giorni in tre giorni, secondo gli obblighi imposti dal calendario.
Però i ragazzini messicani giocano chiamandosi Riva e gridano, spingendo la palla lungo i marciapiedi: «Soy Riva, soy Mexico». E' una verità quotidiana. Speriamo possa durare a lungo.

(La Stampa, 5 giugno 1970, p. 14)

Scusate il ritardo

Napoli, 10 maggio 1987

Il miracolo di San Gennaro si ripete solitamente (e fortunatamente) tre volte l'anno: ogni sabato antecedente la prima domenica di maggio, ogni 19 settembre e ogni 16 dicembre. Il 10 maggio 1987 a Napoli si verificò però un ulteriore miracolo, dovuto sicuramente alla benevolenza del martire beneventano, ma principalmente ad un giocatore divino che lì aveva deciso di dispensare goal e assist, dribbling e palleggi: la Società Sportiva Calcio Napoli vinceva il suo primo titolo nazionale, a quasi sessantuno anni dalla fondazione, avvenuta il primo agosto del 1926.

Il Napoli, nei decenni precedenti, era andato qualche volta in prossimità del primo titolo, sempre sfumando il risultato finale nelle ultime giornate. Tra discutibili presidenze spendaccione, qualche core 'ngrato e qualche campione, nonostante la fortuna di essere unica squadra della città, a differenza di Milano, Roma, Torino e anche Genova, erano arrivate giusto due Coppe Italia, una persino vinta militando in Serie B, e qualche scomparso trofeo internazionale di secondo piano.

Il Napoli di quell'anno aveva un buon potenziale in attacco, con Andrea Carnevale e Bruno Giordano; il primo non vivrà un bel rapporto coi tifosi e con la società, tra alti e bassi. Il secondo è agli sgoccioli di una carriera che, macchiata dal calcio scommesse, sarebbe potuta essere più carica di trionfi. A centrocampo si affidava a Salvatore Bagni, oramai definitivamente un mediano di spinta rispetto agli esordi di ala, a Francesco Romano come regista e a Nando “Rambo” De Napoli, proveniente dall'Avellino (ma cresciuto da Sacchi a Rimini). La difesa era guidata da Giuseppe “pal'e fierro” Bruscolotti, bandiera della squadra a quasi 37 anni, cui si affiancava un altro veterano, Moreno Ferrario. Un giovane Ciro Ferrara e Alessandro Renica, nel ruolo di libero, chiudevano il quartetto. In porta restava Garella, il più enigmatico dei portieri italiani. A completare l'XI al servizio di mister Ottavio Bianchi c'era Diego Armando Maradona, reduce da un Mondiale vinto praticamente da solo.

Si capisce che la squadra era formata da giocatori di grande esperienza e da giovani dal futuro promettente, qualcuno di essi sarà un buon giocatore per qualche tempo, ma il campione era uno, era al massimo della forma, era nella giusta età per ammazzare metaforicamente gli altri grandi della Serie A, palloni d'oro oramai invecchiati e in procinto di ritirarsi.

Il campionato iniziò con 4 vittorie e altrettanti pareggi, proprio come la Juventus. E il 9 novembre 1986 si giocò a Torino [vedi], dove il Napoli andò a scucire il tricolore dal petto dei bianconeri, vincendo per 1 a 3 [vedi] dopo un digiuno di 29 anni, e prendendosi il primo posto senza più lasciarlo.

La vittoria matematica del titolo avvenne con una giornata di anticipo, il 10 maggio 1987; si giocava proprio a Napoli, contro la Fiorentina del giovane Baggio, che da cinico campione pareggiò la rete di Carnevale, togliendo la gioia di una vittoria nel giorno più importante della storia del club. E della carriera di Maradona, più del Mondiale, a quanto lui stesso dichiara a caldo al microfono RAI di un impertinente Galeazzi [vedi], in una dichiarazione così diversa dalle glaciali risposte di Bianchi date allo stesso giornalista pochi istanti prima. In quella dichiarazione d'amore, irrazionale e spontanea, di cuore e non di testa, in cui si mescolano una vittoria sensazionale e un senso di appartenenza territoriale, risiede la vera magia del rapporto tra Maradona e Napoli.

La più grande festa della storia millenaria della città era pronta da tempo, con fuochi e petardi d'ordinanza per ogni gioia partenopea [vedi] e la città cambiò completamente volto con il titolo. Napoli era veramente tutta azzurra, ma proprio tutta: saracinesche, portoni, vecchie auto, scooter, qualche palazzo intero, persino alcuni marciapiedi e tratti di strada: tutto era dipinto d'azzurro. Neanche alcune statue riuscirono a salvarsi. E poi molti scudetti dipinti sulle pareti decadenti dei vicoli (alcuni ancora visibili a quasi trent'anni di distanza) a mescolarsi con le edicole votive di ben più antica memoria.

“Scusate il ritardo” è il titolo di un film (forse il migliore) di Massimo Troisi, ma è anche una frase ricorrente su striscioni e pareti in quei giorni, così come molti versi della tradizione canora napoletana, da tu mme diciste sì 'na sera 'e maggio a tu sì 'na cosa grande, da tenimmece accussì, anema e core a oje vita oje vita mia, quest'ultima cantata ancora oggi dopo ogni vittoria degli azzurri (e ben prima che la Società ne facesse una orribile versione “moderna”, giustamente fischiata non solo dagli ultrà). Ma la mano più irriverente eppure pietosa al tempo stesso scrisse su una parete del cimitero di Poggioreale: e che ve site perso!; si narra che, di tutta risposta, un altro poeta rimasto ignoto appuntasse: e a vuje chi ve l'ha ditto?.

La stagione si concluse con la vittoria della Coppa Italia, la terza del club. Era iniziato il ciclo vincente, ad oggi l'unico, della SSC Napoli, con due Scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Coppa UEFA: il palmarès del Napoli è racchiuso in soli quattro anni. E, miracolo nel miracolo, il 10 maggio 1987, quell'oggetto misterioso di Garella, dopo Verona, vinse il suo secondo e ultimo Scudetto, entrambi mitici.

Pope