Imperfetti e belli, paurosi ed eroici: il calcio siamo noi

di Mario Sconcerti

Riletto a distanza di anni il commento a caldo della prima firma del "Corriere della sera" colpisce per il senso di ebbrezza incredula che avvinse non solo Sconcerti (nomen omen) ma anche la parte del nostro paese che ama il calcio e lo reputa una componente importante della sua storia e della sua vita. Forse più importante della cronaca politica e internazionale che scorre e scompare.

Siamo campioni del mondo, come nessuno pensava e come nessuno nemmeno ci voleva. Noi catenacciari e sporchi, corrotti e vittimisti. Noi di questo Paese che si fustiga e che domani manderà i campioni del mondo a giocare chissà dove, in B o in C non importa, perché noi siamo così, unici ed eclettici, morbosi e avvelenati di lealtà. Siamo campioni del mondo con grande sacrificio come tutto in questo mondo post cattolico e post comunista, ma che in ogni latitudine dello spirito ha sempre saputo giocare questo gioco fantastico che è di tutti gli uomini. L’Italia è campione del mondo, la nostra terra, questo Paese strano e disincantato dove adesso stiamo commuovendoci tutti perché si sa che il calcio non è la vita, ma valla a immaginare una vita senza il calcio. E pazienza se ci sono cose più importanti. Il calcio siamo noi dello Stivale, fantastica terra di mezzo sospesa fra i mondi, bianca, nera, di chissà quali razze, mescolata a se stessa, aggrappata a un’idea di vita arrangiata e granitica. Noi che veniamo da un colpo d’arte, noi che non sappiamo dove nasce la logica, la diplomazia, il mondo, ma sappiamo esistere come pochi altri, che abbiamo piegato la vita nella vita e ora ce la giochiamo sul campo come professionisti del sacrificio, come artisti dell’arrangiarsi. Pazienza se la Francia ha giocato meglio. 

I primi a essere increduli
Che cosa pretendete, che vi racconti una partita? Non è possibile, non sarebbe giusto. L’Italia è campione del mondo perché ha passato tutte le fasce della gara. Quella in cui è andata stupidamente sotto e quella in cui è tornata a galla. Quella in cui doveva vincere e quella in cui è stata brava a non annegare. L’eroe non è perfetto, ma l’eroe è per sempre. E noi, loro, tutti, stasera, siamo stati eroi. In fondo il calcio è questo, la straordinaria sensazione di correre davvero sul carro dei vincitori. Siamo tante volte sconfitti durante la vita, durante la giornata. Viviamo di televisione perché non possiamo vivere di vita. Il calcio è la simulazione più vicina alla realtà, quella più piena di energia, quella che tiene a galla e ci fa dire che forse vale ancora la pena giocare con i sentimenti. L’Italia è campione del mondo e noi con lei, noi che siamo la sua gente, noi che non sappiamo segnare né quasi fare un passaggio, ma siamo cresciuti in mezzo al fascino violento e galeotto di questo sport che ci cattura da subito e ci fa mettere tutto alle spalle. Noi sappiamo che ci sono cose più importanti. È questa la cosa bella, che ci sono cose vere, che la vita sta da un’altra parte, a Gaza, a Bagdad, in qualche metropolitana di grande capitale occidentale. Ma arriva un momento in cui il calcio porta via con sé, strappa da tutto, spezza la vita e ne costruisce un’altra. Fa diventare campioni del mondo. E il resto, onestamente, sinceramente, chi se ne frega.

La partita non è stata il meglio. Totti l’ha fallita in modo quasi crudele, Materazzi l’ha monopolizzata all'eccesso. Suo il fallo del rigore, suo il gol del pareggio, sue le parole, chissà quali, chissà quanto dure, contro Zidane, e suo anche il gol in più che ci dà il titolo mondiale. L’Italia ha giocato un ottimo primo tempo, poi si è spenta e ha semplicemente resistito. Eravamo esausti contro un avversario che era appena più in gioco, ma non aveva attaccanti. Loro erano solerti e noiosi, lenti e previsti. Quando Henry è uscito per sfinimento e Zidane per squalifica, è stato quasi chiaro che avevamo vinto. Ma la certezza è stata dura e lenta da conquistare. Straordinario ce l’abbia data Fabio Grosso, l’uomo del Mondiale, quello che non doveva nemmeno esserci. Una parte seria di questo Mondiale va nelle sue spalle di figlio di tutti i campi di provincia e alla soglia dei trent'anni arrivato finalmente nella storia e in una grande società. Un ultimo pensiero per Domenech, c.t. francese. Aveva ragione lui con le sue manie astrologiche spinte fino alla fissazione. Detestava gli scorpioni. Provate a indovinare: di che segno è Trezeguet, l’unico in campo ad aver sbagliato il rigore?

"Corriere della Sera", 10 luglio 2006

L'ultima del grande Alfredo

A Vienna, è vigilia della nona finale di Coupe des clubs champions européens. Non manca quasi mai il Real Madrid, che ne ha già vinte cinque e persa una sola. Se la vedrà con l'XI più diabolico del momento, l'Inter del Mago, densa di fuoriclasse (giovani e in ascesa o già abbondantemente consacrati) ma detestata per il suo modo di giocare: difesa e contropiede, cinico pragmatismo o pragmatico cinismo. Herrera ha fatto tesoro delle sconfitte – più rumorose delle vittorie – incassate nel primo periodo milanese e in quello catalano ancora precedente. In Italia ci sono grandi squadre con cui misurarsi (il Milan del Paròn, naturalmente, ma anche la Juve di Sivori e il Bologna di Bernardini), e i nerazzurri vi stanno costruendo una solida egemonia.

Al Kahlenberg, grande albergo che sovrasta Vienna, i giocatori del Real si annoiano un po'. L'ultimo mese è stato per loro agonisticamente poco intenso: solo partite di Copa del Generalísimo, nelle quali Muñoz ha schierato sempre i rincalzi. Avrà ritenuto che per i due grandi assi, Puskás e Di Stéfano, fosse bene riposare un po'. Hanno la loro età; soprattutto il Grande Alfredo, che va per i trentotto. Nessuno probabilmente lo immagina, ma domani sera al Praterstadion giocherà la sua ultima partita ufficiale con la maglia dei Blancos.

Eccolo lì. Seduto in poltrona, chiacchiera con gli inviati di questo e di quel giornale. Non c'è nessuno al mondo che possa prevedere come andrà a finire la partita di domani, assicura. Lo circondano nugoli di ragazzini; quanti autografi, Alfredo, nella tua carriera? Beh, facciamo il conto. Diciamo duemila partite in venticinque anni, cinquecento firme per ogni incontro: fa un milione di autografi, un'inflazione. Ormai non valgono molto. Si torna a parlare della partita. Dice che sarà parecchio incerta. Possiamo vincere noi, può vincere l'Inter. Ma ciò non vorrà dire che il vincitore è più forte. Per affermarlo bisognerebbe disputare una decina di incontri, come fanno i tennisti professionisti. Valga l'esempio della finale di Bruxelles con il Milan nel '58, vinta ai tempi supplementari, tutti dissero che noi eravamo i più bravi. Non è vero: abbiamo soltanto avuto più fortuna. A proposito di supplementari, Alfredo: non vi spaventa l'ipotesi? Per via del fiato? No, noi vecchi, Puskás ed io, abbiamo forse un po' meno scatto dei ragazzi, ma siamo certamente più resistenti. Secondo me, le cose che contano in una partita come quella di domani sono tre: il pallone, il terreno e la capacità delle squadre. Arbitro e pubblico non contano. Per il pallone ci siamo messi d'accordo e siamo pari. Del terreno siamo tutti insoddisfatti: è una vergogna che si debba giocare una finale sul campo del Prater, avrebbero potuto scegliere Glasgow, Wembley o Bruxelles. Dell'illuminazione abbiamo sentito dire che è scarsa. E anche in questo siamo pari, perché i milanesi avranno difficoltà a correre e noi a far correre il pallone. Rimangono le squadre, la capacità fisica e di gioco. Qui vi sono le uniche lievi differenze, i milanesi un po' superiori fisicamente, noi forse un po' più omogenei nel gioco. Bene: parliamo di tattiche? Alfredo sorride. Non esistono tattiche. Chi è più forte attacca, chi è più debole si difende. Per quel che mi riguarda, sono disposto ad attaccare con dieci uomini, se necessario, e a difendermi con undici, se siamo in pericolo. L'unica tattica è quella che i giocatori sappiano al momento giusto quello che devono fare. Devono guardare il pallone e il compagno, non l'avversario o l'allenatore. L'allenatore? Sì, l'allenatore. Di Stéfano si alza e, tra la gioia dei fotografi, imita il comportamento di un giocatore in un campionato di un paese che non vuole nominare, ma che si può facilmente immaginare. Un occhio alla palla, una spinta e un robusto abbraccio all'avversario, poi gira la testa verso l'allenatore seduto in panchina. L'allenatore fa segno, con sette dita, che bisogna adottare la tattica numero sette. Mentre il giocatore conta le dita, arriva il pallone e gli passa accanto. Allora l'allenatore urla, il giocatore si precipita dietro la palla, spinge e abbraccia di nuovo l'avversario e libera. Di nuovo un'occhiata verso la panchina, l'allenatore fa un cenno di approvazione e mostra due dita: tattica numero due. In quel momento arriva un pallone e il giocatore che ha girato la testa di scatto fa un gol: senza volerlo. Questo è diventato il calcio. Se dovessi pagare di tasca mia un biglietto per una partita, ci rinuncerei. Voglio veder giocare, non veder gente che impedisce ad altri di giocare. Voglio godermi uno spettacolo, non rovinarmi il sistema nervoso per due punti o per una coppa. Come al cinema, sedermi comodamente in poltrona, con una sigaretta e vedere qualcosa di bello. Ci andrebbe lei al cinema a vedere Elizabeth Taylor, se sapesse che, in ogni momento, qualcuno gliela nasconderà?


La Saeta rubia giocò dunque la sua settima finale. Nelle prime cinque, tutte vinte, segnò sempre almeno un gol. Nella sesta, rimase all'asciutto e il Real perse. Nella settima, un mandrogno di nome Carlo Tagnin gli rimase addosso per novanta minuti, e lo nascose agli spettatori: “Lui faceva su e giù per il campo, dalla nostra aerea di rigore alla sua, per ricevere il pallone dal portiere e portarlo avanti; io lo seguivo come un'ombra. Me lo aveva detto il mago: vagli dietro anche se va al gabinetto”. Di Stefano, il grande Di Stefano, non ha quasi visto la palla nei primi 45 minuti. Tagnin, incollato alle sue famose caviglie, non ha dovuto faticare per tenerlo a bada (Rodolfo Pagnini, L'Unità). Proviamo a immaginarlo, deluso come lo vide un cronista catalano, a rimuginare sulla partita da solo en un obscuro rincón del vestuario. La partita, per lui, si poteva riassumere così: Nosotros hemos pagado el gasto y ellos se han zampado la cena.


Sì, il Real perse anche quella volta. Il tempo del Grande Alfrédo era ormai scaduto. Rimase fuori dalla formazione che, il 31 maggio e poi ancora il 3 giugno, contese inutilmente ai Colchoneros la qualificazione per la finale di Copa del Generalísimo. Tornò in campo a Rouen, il 10 giugno, in un'amichevole organizzata per inaugurare la nouvelle tribune présidentielle dello Stade Robert-Diochon. Quarantacinque minuti, ancora senza gol, e poi il silenzioso addio. Andò a Barcellona, e giocò per due anni nell'Español.

Quand'ero ancora bambino, il Real Madrid mandò via Alfredo Di Stéfano dopo una sconfitta nella finale della Coppa Europa contro l'Inter di Milano. Di Stéfano era così emblematico che inizialmente risultava inconcepibile la nostra squadra senza di lui, soprattutto se, come avvenne, non si ritirava ma continuava la sua attività: firmò con l'Español di Barcelona, dove militò per alcuni anni, e poi credo che passò all'Elche – un'assurdità, quella striscia verde. Ebbene, fu tale la mia indignazione e quella dei miei compagni merengues che decidemmo di passare al club barcelonese, o piuttosto di essere di Di Stéfano e non tanto del Madrid. Per alcune giornate seguimmo i risultati della sua nova squadra con attenzione, vedemmo che don Alfredo segnava doppiette di goal e la rabbia ci invadeva ancora di più. Fino a quando arrivò il confronto Madrid-Español, e allora le nostre scelte crollarono. Pure arrabbiati come eravamo con il Madrid, quel giorno non riuscimmo ad andare contro la nostra squadra né a favore dell'idolo ingiustamente espulso (Javier Marías, Selvaggi e sentimentali, pp. 78-79).

Mans

Fonti
  • L'intervista a Di Stéfano è ripresa quasi testualmente da quella dettata a Stampa Sera (27 maggio 1964, p. 11) da Tito Sansa 
  • Per le partite del Real - prima e dopo la finale di Vienna - e i relativi tabellini vedi qui. Sull'amichevole di Rouen, vedi qui
  • Il racconto di Tagnin in Storie di Calcio
  • Le interviste ai madridisti negli spogliatoi del Prater su MD
  • Naturalmente, la finale del Prater in Cineteca.
Va aggiunto che vi è solo parziale riscontro all'ultima parte dei ricordi di Javier Marías. Infatti, il caso vuole che Di Stéfano giocasse con l'Español e contro il Real proprio nella prima giornata del Campeonato de Liga 1964-65, al Sarriá (13 settembre 1964). I Blancos vinsero due a uno, in rimonta, con doppietta di Puskás. Nella gara di ritorno (3 gennaio 1965), al Bernabéu, Di Stéfano non scese in campo.

Prima del calcio di rigore

È probabile che Carlos Caetano Bledorn Verri, meglio conosciuto come Dunga, e Roberto Baggio, incrociarono i loro sguardi. Dunga camminava verso il centro del campo, Baggio, in senso contrario, si avvicinava all'area di rigore.

Mancavano pochi minuti alle 15 e la canicola premeva come un pesante coperchio sul Rose Bowl di Pasadena e sui suoi quasi centomila spettatori. I novanta minuti e poi gli altri trenta dei supplementari erano trascorsi senza che nessuna delle due squadre, Italia e Brasile, riuscissero a regalare l’emozione non dico di un gol, ma neppure di una giocata degna di una finale di Coppa
del mondo.

Chi fino a quel momento era convinto che Germania e Argentina quattro anni prima prima avessero dato vita alla peggiore partita decisiva di un Campionato mondiale, ormai doveva ricredersi. Il caldo torrido dell’estate californiana, la stanchezza e le precarie condizioni atletiche di molti dei protagonisti e, infine ma non meno importante, l’esasperato tatticismo imposto alle due compagini dai rispettivi tecnici, Arrigo Sacchi e Carlos Alberto Parreira, avevano contribuito in egual misura a mettere in scena una noiosissima contesa.

Per la prima volta una Coppa del mondo sarebbe stata decisa dai calci di rigore. Ed era tutto sommato un peccato che fosse così proprio per le due nazionali che vantavano il maggior numero di titoli mondiali vinti: tre a testa, praticamente uno spareggio per la più forte di tutti i tempi.

A battere dagli undici metri per prima toccò all'Italia, e al suo capitano, Franco Baresi. Baresi aveva giocato tutti i 120 minuti dell’incontro dopo che tre settimane prima si era infortunato al menisco, nel corso della seconda partita del torneo. Operato in tutta fretta, aveva prodigiosamente recuperato giusto in tempo per giocare la finale. Ora stremato si presentava sul dischetto: prese la rincorsa e sparò il suo tiro alle stelle.


Non fece di meglio Marcio Santos, che si vide ribattere il tiro da Pagliuca. La sequenza dei rigori rimase in equilibrio fino all'errore di Massaro, che appoggiò un piatto fiacco tra le braccia di Taffarel.

Dopo quell'errore, toccò a Dunga, il capitano del Brasile. Sapeva quel che stava per succedere. Se avesse messo dentro quel tiro dal dischetto avrebbe condotto l’ultimo avversario di fronte alla dura necessità di non sbagliare. La porta spalancata come una specie di plotone di esecuzione, neanche fosse il colonnello Aureliano Buendìa all'inizio di Cent’anni di solitudine.

Dunga prese il pallone, lo posò sul dischetto senza guardare Pagliuca. Tornò sui suoi passi, si girò, corse incontro alla palla e la colpì. E segnò con freddezza il suo punto.

Il successivo giocatore azzurro era Roberto Baggio. Un’occhiata spavalda di Dunga incrociò a mezza via lo sguardo imperscrutabile di Roby. I due si conoscevano bene: per due anni, dal 1988 al 1990, erano stati compagni di squadra nella Fiorentina. Come Baresi, anche Baggio, uscito acciaccato dalla semifinale con la Bulgaria, aveva giocato la finale per forza e con una gamba sola.

Siatene certi: il pallone che Dunga aveva appena calciato alle spalle di Pagliuca e che ora il “Codino” si faceva rimbalzare nervosamente tra le mani prima di posarlo sul dischetto pesava assai di più dei regolamentari 450 grammi. Gli occhi di Baggio che guardavano ora il pallone sul dischetto, ora la sagoma di Taffarel al centro del rettangolo 7,32 per 2,44 della porta erano fessure azzurre nell'abbacinante calura di Pasadena, alle ore 15 del 17 luglio 1994.

Partì la rincorsa, colpì il pallone. «Alto» disse piano la voce del telecronista italiano. Il Brasile tetracampeão diede inizio alla samba.

Gino Cervi
Per gentile concessione dell'autore: tratto da Gino Cervi, Antonio Gurrado, Mondiali dal 1930 a oggi

Nel dolore il calcio cambiò

di Gianni Brera

A quarant'anni dalla tragedia, Brera rievoca (non senza il suo tipico disincanto) i giorni di Superga e la squadra che nel nostro paese non si cesserà mai di rimpiangere

La storia attiva e passiva d'Italia è piena di date orrende: questa del 4 maggio 1949 riguarda lo sport e deve considerarsi una macabra tragedia, non immune come tutte le nostre vere tragedie da un mortificante grottesco. A Superga è perito il Torino, che giustamente venne poi ricordato come grande. Era importante, agli occhi degli italiani, come Bartali e Coppi, Nuvolari, Varzi, Ascari, Farina e Villoresi, Tenni e tutti coloro che li aiutavano a uscire dalle mortificazioni di una guerra gratuitamente perduta.

Il Torino aveva scremato il vivaio calcistico italiano con mezzi di persuasione davvero irresistibili. Il C.T. della nazionale Vittorio Pozzo, vecchio militante della squadra granata, sollecitava i migliori della nazionale giovanile ad accettare le offerte del Torino, quali che fossero, perché giocando sotto la Mole sarebbero sempre stati alla sua portata: li avrebbe seguiti e consigliati per il meglio, così da maturare al più presto per la maglia dei moschettieri azzurri.

Ferruccio Novo
Dal canto suo il presidente Ferruccio Novo, industriale medio torinese, esercitava il proprio compito assicurando ai firmatari del cartellino granata (disemm inscì) i vantaggi indubitabili dell'esenzione dal servizio militare bellico: magari sarebbero stati chiamati alle armi, però destinati a Corpi non direttamente impegnati sui fronti di operazione: ed ecco perché il campionato del '44 toccò ai misteriosi pompieri del nucleo spezzino ...

Ferruccio Novo aveva assunto prima delle inique leggi razziali l'ungherese israelita Egri Erbstein, intelligente come pochi e come pochissimi informato di calcio. Erbstein era stato nascosto da Novo con tutta la sua famiglia. Alla fine del conflitto, il tecnico tornò fuori e trovò di avere a disposizione il meglio della pedata italica. Per quanto riguarda il modulo, il Torino applicava un tantino pedissequamente il WM inglese. Pareva a Erbstein di essere all'avanguardia, ma già incominciava ad accorgersi che il modulo faceva acqua in fase difensiva. Non ne ho le prove certe, ma mi fa testimonianza lo scrittore pavese (e torinista) Folco Portinari, che ebbe modo di consultare i preziosi appunti di Egri: ad affidarglieli era stata la signorina Erbstein, di professione ballerina. Egri incominciava a parlare di geometria (cosa che feci anch'io in altra sede) e sono certo che bastasse questa intuizione a portarlo prestissimo alla scoperta degli spazi e alla più conveniente copertura dei medesimi. Il Torino aveva tutto il meglio o quasi del prosperoso (allora) vivaio italiano e poteva consentirsi tutte le licenze tattiche di questo mondo. Io però lo vidi beccare 6-2 dall'Inter di Carcano, il vecchio marpione che aveva guidato anche la Juventus del quinquennio 1931-35. Carcano aveva evoluto il metodo a W chiamandolo, come tutti, mezzo sistema. Applicando quel modulo, improntato al difensivismo uruguagio-argentino, la Triestina e il Modena avevano conquistato il secondo posto in campionato dietro al Torino, troppo potente perché i poveri cirenei della critica italiana si potessero accorgere di nulla. Il WM era di moda e perfino Pozzo, che lo aveva osteggiato, ebbe a dirmi dopo un clamoroso Doria-Torino, finito 0-5, che secondo lui i granata di Erbstein avrebbero tranquillamente battuto anche la famosa Juventus del quinquennio, proprio quella che aveva innervato la nostra prima nazionale campione del mondo. 

Ernő Egri Erbstein
Ripensando alla poderosa formazione di Erbstein verrebbe spontaneo definirla una delle più forti del mondo: il giudizio è comunque induttivo, sebbene i contatti internazionali deponessero per la sua fondatezza: era però deficitaria l' impostazione tattica, se è vero che la nazionale innervata dal Torino aveva subito un mortificante 0-4 dagli inglesi nel ' 48, proprio a Torino, e che gli stessi inglesi non irresistibili avevano perso 0-1 con gli USA due anni dopo ai mondiali brasiliani. 

Il grande Torino perì a Superga perché così era scritto che finisse quella magnifica e insieme astuta creazione di Novo e di Pozzo. Le circostanze sono note (purtroppo) nel mondo intero. Dopo un certo Italia-Portogallo giocato a Genova, il vecchio Pereira chiede al collega capitano Valentino Mazzola che il Torino si presti a giocare in Lisbona la partita che il Benfica dedica al suo più valido atleta, ormai giunto al commiato dallo sport. Il generoso Mazzola promette e Ferruccio Novo pone come condizione che il Torino pareggi l'incontro decisivo di San Siro con l'Inter, che insegue a 4 punti e non è ancora rassegnata alla sconfitta. Il capitano Mazzola accetta a nome di tutti. L'incontro finisce 0-0: il Torino è matematicamente campione. Può dunque prepararsi per l'involo di Lisbona. La trasferta in Portogallo viene considerata alla stregua d'una gita turistica. Vi prendono parte i tecnici Erbstein e Livesley, il coach inglese, i giornalisti Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti, capo dei servizi sportivi della Gazzetta del Popolo, e Luigi Cavallero, che è capo dei servizi della Stampa e deve farla fuori con Vittorio Pozzo per non venir lasciato in redazione dal collega più vecchio e famoso.

L'amichevole di Lisbona (pase de adios del buon Pereira) finisce 1-0 [n.d.r.: sic] per il Benfica. La comitiva torinese si affretta a raggiungere l'aeroporto dove l'attende, pronto all'involo, il Charter G 212. Tutti i gitanti sono pieni di doni per familiari ed amici. La rotta del G 212 è stabilita da tempo: l'atterraggio è previsto per l'aeroporto internazionale della Malpensa, nei pressi di Milano: qui aspetta, come stabilito, il pullman sociale chiamato Conte Rosso ...

Come è già accaduto qualche altra volta, l'aereo dribbla la Malpensa, e con quella i finanzieri delegati a fare dogana, per atterrare, inatteso, a Torino. Il cielo è coperto. Sono le ore 17,05. Il G 212 s'immerge sobbalzando in una gran nube che sovrasta le colline torinesi. Pochi istanti trascorrono ed è un orribile schianto. Tradito dagli strumenti di bordo, il pilota non si accorge di volare diritto contro la scarpata della Basilica di Superga. Nell'urto immane, l'aereo esplode come una bomba. Ai primi soccorritori si presenta uno spettacolo orripilante. Membra umane sono sparse all'intorno con i resti sconciati dell'apparecchio. Identificare i cadaveri è quasi impossibile. Il solo impavido Vittorio Pozzo ha cuore di prendersi questo compito pietoso e orrendo.

Di colpo la notizia della sciagura si abbatte sull'Italia e sul mondo. Per tutti è cordoglio e pena. Non era mai accaduto che un'intera squadra perisse a quel tragico modo. Il bilancio è terribile. La città di Torino e l'Italia perdono diciotto fra i migliori atleti che vantasse il nostro calcio. Il vuoto appare subito incolmabile. Un'intera generazione viene decapitata ... Il Torino stava sostituendosi alla Juventus nel tifo degli italiani. In Valentino Mazzola vedevano tutti il meglio del nostro calcio sopravvissuto alla guerra. Con lui sono periti almeno altri undici elementi di valore internazionale certo: il portiere Bacigalupo, i terzini d'ala Ballarin e Maroso, il centromediano Rigamonti, i centrocampisti Castigliano, Grezar, Martelli e Loick, le punte Menti II, Gabetto e Ossola, la riserva e già nazionale di Francia Bongiorni. Il lutto è atroce.

La tragedia ci appare come una maledizione biblica, non meritata dal Torino né dall'Italia. Poi, com'è fatale, se ne ricercano le cause al di fuori del tragico destino che ha consentito la sciagura. Affiorano le miserie più vili, le astuzie torbide, i sotterfugi illegali. Vi è chi parla di contrabbando di valuta e persino di droga, di un cambio di rotta improvviso per ingannare i finanzieri comandati alla Malpensa. Ahimé, nella tragedia stona qualsiasi rilievo, foss'anche ragionevole e doveroso. La realtà è tale che lo sdegno aiuta a superare la desolazione. Ma intanto quei meravigliosi ragazzi non sono più con noi. E l'acerbo rimpianto non ha fine.

"La Repubblica", 4 maggio 1989

Lo strazio che non ha nome

Le cronache di Monsù
5 maggio 1949


Il Torino non c'è più. Scomparso, bruciato, polverizzato. Una squadra che muore, tutta assieme, al completo, con tutti i titolari, colle sue riserve, col suo massaggiatore, coi suoi tecnici, coi suoi dirigenti, coi suoi commentatori. Come uno di quei plotoni di arditi che, nella guerra, uscivano dalla trincea, coi loro ufficiali, al completo, e non ritornava nessuno, al completo. 
E' morto in azione. Tornava da una delle sue solite spedizioni all'estero, dove si era recato in rappresentanza del nome dello sport italiano. Aveva presa la via del cielo per tornare più presto, per far fronte agli impegni di campionato. Un urto terribile, uno schianto - ai piedi di una chiesa, di una basilica addirittura - una gran fiammata. E poi più nulla. Il silenzio della morte. 
Era la squadra Campione d'Italia. Era, quasi al completo, la squadra che rappresentava i colori del nostro Paese nelle competizioni internazionali. Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola - appello in ordine di squadra di dieci azzurri -, Bongiorni, italiano d'origine, nazionale di Francia; Schubert, nazionale della Cecoslovacchia; Martelli, Ossola. Operto, Fadini, Ballarin II, Grava, nazionali di riserva o dell'avvenire. Erano con loro: Cortina, il massaggiatore di quest'anno della Nazionale; Erbstein, l'ungherese; l'allenatore Lievesley, uno dei migliori tecnici che avessimo in Italia al momento attuale; Civalleri ed Agnisetta, dirigenti della vecchia guardia, e Cavallero, Tosatti e Casalbore, tre giornalisti, tre compagni di lavoro. 

Se non fosse che li abbiamo visti noi, morti, aiutando nelle operazioni ufficiali di identificazione dei cadaveri, ci rifiuteremmo di credere a quanto avvenuto. Giuocatori che erano l'orgoglio della nostra città e dell'Italia sportiva tutta, ragazzi sani, pieni di salute, sprizzanti energia da ogni poro, uomini che erano le speranze nostre per le lotte cogli stranieri, ridotti in quelle condizioni! 
A farsi forza per allontanare il pensiero da quella spaventosa visione, si viene presi, afferrati da un senso di vuoto. Amici, famiglie, squadra granata, squadra nazionale: più nulla. Per Torino che amava la squadra che porta il suo nome come sua, per il mondo calcistico tutto, è una tragedia dalle proporzioni terribili! Menti, che venivi a confidarti con me ogni tanto, Ballarin che tanta paura avevi di perdere il posto in Nazionale dopo la partita di Zurigo, Rigamonti che t'ho fatto piangere l'anno scorso a Parigi prima della partita colla Francia, Grezar che mi corresti dietro la settimana scorsa per offrirmi una birra e per chiedermi se in realtà anch'io ti ritenessi diventato «vecio». Maroso, tu il vero purosangue dell'ultima generazione, Valentino Mazzola che facevi i capricci, mi davi dei grattacapi e poi mi scrivevi per chiedermi scusa, Loik che a gare finite amavi un bicchiere di vino buono, Voi tutti che mi foste compagni nelle lotte per il buon nome, e che mi rimproveraste quando Vi lasciai, pochi mesi fa, ora siete Voi a lasciare me, il che può anche essere poco, a lasciare l'ambiente e la vita, ed è tutto. Permettetemi che non scriva più, che Vi saluti, in nome di tutto il grande esercito degli sportivi, ritti sull'attenti, in silenzio. Dicevo sovente con Voi, scherzando, che io ero un po' come il portinaio di San Pietro, per cui cose nuove, belle o brutte, in senso assoluto più non esistono. Me l'avete procurata Voi, colla Vostra scomparsa collettiva e fulminea, la sensazione nuova: sotto forma di uno strazio che non ha nome.

Caro Gbfc, impreco e brindo alle tue idee

di Gianni Mura

Quello del 1994 fu il primo Mondiale senza Gianni Brera. Il coniatore dell'espressione "i Senzabrera", Gianni Mura, suo successore come prima firma de "La Repubblica", ne celebrò la memoria rintracciando tasselli del suo mondo anche in quel torneo d'Oltreoceano.

Boston - Mi sa che in America ti saresti divertito, Gbfc. Qui va tutto a sigle, JFK, MPC, avrei dovuto scrivere Gioannbrerafucarlo. Il nome di tuo padre che hai dato a tuo figlio che è morto, me l’hanno telefonato ieri mattina alle sette, stessa ora di quando m’hanno detto che eri morto tu. Andando a Foxboro abbiamo passato dei ponti sul fiume Charles e ho pensato a un altro fiume, a un altro funerale, a quanta porca acqua passa e ci tocca farla passare. Carlo stava già male a maggio, quando abbiamo presentato "Il principe della zolla", tutti a mangiare bolliti e mostarda e a parlare di te, lui in un angolo a fumare una Gitane dopo l’altra, da qualcuno avrà preso, no? E almeno questa, di vederlo andar via così, ti è stata risparmiata. 

"Ti ricordi le belle maglie rosse di Netto, di Voronin, di Kurtsilava?"
E adesso voglio raccontarti cosa succede qui, Gbfc, Gianni Brera Football Club. Che, per ora, le tue idee stanno in piedi. La nazionale fa pena. Io a Vigo non c’ero, non ho la sindrome come tanti altri, ma mi sembrerebbe di sparare sulla Croce rossa, un po' mi vergogno. Qualcuno ha scritto che la nazionale è formato Milan. Magari. Ti saresti divertito sì, a veder vincere lo scudetto con 36 gol in 34 partite, con le abbottonature e le cerniere del Gran bisiaco. Così avevi ribattezzato Capello in tempi non sospetti, quando molti lo vedevano come uno yesman e basta. Orejas y musica, avresti gridato ad Atene, già al secondo dei quattro gol, affondata la corazzata di carta del superbo Cruyff. Sì ti saresti divertito, e non eri poi così rincoglionito, come ha detto in tv un regista più noto per la bellezza della moglie che per la qualità dei suoi film. Uno che in tv faceva tanto quello di sinistra e adesso sta con Fini. Confini molto labili, cambi di maglia. La Russia sembra la Francia, ti ricordi le belle maglie rosse di Netto, di Voronin, di Kurtsilava? E i tedeschi sembrano dei clown, addio rigoroso bianco e nero durato da Schaefer a Beckenbauer. Gli arbitri sono in fucsia, in color mandarino, i campi sono ricamati a righe, a cerchi, a rombi. 

Gli americani non capiscono molto di calcio, ma questo non è grave. E' un po' peggio che quasi tutti quelli coinvolti nell'organizzazione siano così ottusi, arroganti e inutili. C’è una frase che ormai mi mette i brividi: can I help you? So che mi manderanno dalla parte sbagliata, che farò chilometri a piedi sotto il sole, penso che perfino in Messico dopo il terremoto e alla Coppa d’Africa a Dakar c’era il telefono in tribuna stampa e si faceva la teleselezione, solo qui è impossibile. Hanno inventato una "card", basta digitare una quarantina di numeri e parli con l’Italia, sempre che non ne salti uno, nel qual caso ricominci. E poi non si può fumare né in sala stampa né in tribuna, tutto il resto dello stadio sì, noi no. Son sicuro che ti saresti fatto arrestare, pur di non rinunciare al vizio.

Ma tu poi ci saresti venuto? La storia del mafioso che voleva farti la pelle per una storia di donne non l’abbiamo mai bevuta, nell’84 abbiamo solo fatto finta. Io credo che ci saresti venuto perché il calcio era mestiere, era scienza ma anche vizio, in te. Anche solo per una puntuta curiosità da voyeur, ci saresti venuto. Avresti ingaggiato un taxista full time, con aria condizionata, perché qui si data Boston ma è come datare Milano e andare a vedere la partita a Piacenza. Avresti chiesto di essere svegliato più tardi degli altri, le sette è una condanna, già due volte che per sentirmi sveglio accendo una sigaretta e faccio scattare il sistema d’allarme, ormai deve avercela con me perché è scattato anche alle cinque quando dormivo. 

"Penso che avresti tifato, senza dare troppo nell'occhio, per l’Irlanda"
Penso che avresti tifato, senza dare troppo nell'occhio, per l’Irlanda. Alla vigilia della partita ho cenato a casa del professor Zemach, in Upper West Side. Non lo conosci, ma lui conosceva te. Suona il violoncello alla Metropolitan Orchestra, è nato a Plovdiv ma con radici, sostiene lui, a Bassano del Grappa. Il professore m’aveva scritto dopo la tua morte: adesso siamo tutti più poveri. Ci siamo scritti per un po'. I tuoi libri in ordine alfabetico sono allineati prima di quelli di Cechov (in cirillico). Chateau Cheval Blanc 67, tenuto da parte per le grandi occasioni. Chi può essere oggi Rombo di Tuono, ha detto il professore. Nessuno, ho risposto. Ho pensato a varianti su tue invenzioni, come Rombo di Grillo, e penso che nemmeno avresti usato il termine abatini, preferendo settimini. Uccellato, per Pagliuca con Houghton, l’avresti usato di sicuro. E Bergheimer per Donadoni, bergamasco anche Signori lo è, ma quanti tripallici riusciamo a contare, in azzurro? E quanti ne canteresti col cuore? 

Ti saresti divertito con la Romania, la squadra più all'italiana che c’è, con quel contropiedista molto forte che è Raducioiu, e avresti insultato quel tris di veneziani che sono Asprilla, Valencia e Rincon. Forse ti avrei convinto a tifare Camerun (avessero un portiere, non un imitatore di Grobbelaar) e il giorno di Norvegia-Messico tu avresti tenuto ai vichinghi e io agli aztechi, e dopo avremmo bevuto Merlot di Napa Valley e giocato a scopa. Ricordo che mi telefonasti di andarci piano con gli entusiasmi, dopo Eindhoven (gli olandesi delle amichevoli se ne fregano) e so come la pensavi su Sacchi. E i fatti ti stanno dando ragione, ma questa non è, non sembra proprio una squadra di Sacchi. Ti farà piacere sapere che, per le strade di New York, il tuo amico Bearzot è venerato come la Madonna pellegrina e ha sempre la tua pipa. Anche Sacchi ha parlato di contropiede (sia pure corto) e qui si segna molto in contropiede (le grandi e le piccole). Fanno fatica le grandi a vincere, le piccole a perdere. Più parlano di spettacolo più giocano in difesa. Safety first, per citarti. Quanto è breriano questo Mondiale per noi Senzabrera. Questo per ora ti si voleva dire, e per il resto vadano tutti a scopare il mare. Che in Lombardia significa ramazzare. Detto altrove, sarebbe un grande sogno. Qui i sogni, anche calcistici, sono piccoli, pulsanti ma confusi, nel caso fosse previsto un allarme anche per quelli.

"La Repubblica", 22 giugno 1994