Avanti, si gioca. Godetevi l’Italia

di Gianni Brera

Il giorno dell'inaugurazione di Italia 90, Gianni Brera intreccia da par suo i pronostici tecnici con la storia e la cultura, non solo pallonara, dei popoli presenti in mutande ai Mondiali del Bel Paese. Soprattutto esprime un timore, azzeccandoci: "Il solo pericolo può derivare dall'eccessiva sapienza tattica di quasi tutti i protagonisti, la quale potrebbe ingenerare un continuo susseguirsi di gesti ampiamente previsti e quindi stucchevoli la loro parte"

Uno dei simboli di Italia 90
La bellissima cattedrale nel deserto del San Nicola di Bari
Ha inizio oggi a Milano, con l’incontro Argentina-Camerun, la parte finale del XIV campionato mondiale di calcio. L’ambizione di organizzare questa parte finale è costata e costerà molti sacrifici al nostro Paese, che peraltro ha già ospitato la II edizione del torneo nel lontano 1934. Se la Federazione Internazionale delle Federazioni Calcistiche si è trovata d’accordo di assegnare all'Italia l’edizione numero XIV, segno è che tutti l’hanno considerata degna e all'altezza di tanto impegno. Né stupisce che qualcuno abbia approfittato, fra noi, per intorbidire le acque già fin troppo agitate sulle quali da tempo galleggiamo. Che gente saremmo, via, se non dimostrassimo quando serve (e anche quando non serve proprio) di pensarla a nostro modo? Questo Paese è libero e la lira svolazza in gaia umiltà: nessuno se ne offende al paragone e tutti si beano di poterla contare annotando poi cifre con molti zeri. Un paio di millenni or sono vigeva l’abitudine a Roma di chiamare in tribunale (diem dicere) chiunque avesse mal esercitato una carica politica o semplicemente amministrativa: nessuno potrà impedire a noi di dire il giorno a chiunque sia sospettato di avere vertiginosamente fatto lievitare i costi dei dodici magnifici stadi aperti ai mondiali. Straparlare di creste o addirittura di malversazioni è piuttosto agevole, al punto che molti ne hanno contratto il vizio orrendo: sanno tutti però che la stupidità dei ladri è proverbiale, perché un giorno o l’altro il furto aggalla, e quasi sempre paga chi merita. Convinzioni contrarie vengono nutrite alla stregua di pii desideri: ma gli onesti hanno fiducia che in ogni caso giustizia sia fatta. E questa fiducia è anche la nostra. Non per altro sfioriamo l’argomento solo all'ultimo giorno di vigilia, con l’intenzione di chiuderlo in pace, soprattutto con la nostra coscienza. 

Tornando allo sport, ammirate le opere che ospiteranno gli eventi del torneo, altro non ci resta da fare se non augurarci che anche il pubblico sia degno dell’avvenimento che ne intriga direttamente la cultura e la maturità civile. L’andamento tecnico-agonistico della manifestazione promette di per sé autentiche meraviglie. Il solo pericolo può derivare dall'eccessiva sapienza tattica di quasi tutti i protagonisti, la quale potrebbe ingenerare un continuo susseguirsi di gesti ampiamente previsti e quindi stucchevoli la loro parte. E’ il destino dei giochi troppo ispirati alla tecnica, diremmo perfino alla scienza, come è fatale che accada là dove ormai si contano i miliardi a migliaia. Fosse un fenomeno trascurabile, il calcio non verrebbe studiato con tanto impegno: e basti questa considerazione a consolare chi veramente lo ama come sport, dunque come indice primario della maturità civile e del benessere delle Nazioni. Vediamo ora, secondo consuetudine, di procedere a un pronostico di massima, esaminando a uno a uno i sei gruppi in cui sono divise le 24 protagoniste. 

Girone A: Vicini deve avere paura
Ne fanno parte l’Italia, l’Austria, la Cecoslovacchia e gli USA. So per antica esperienza che quando gli italiani si abbandonano a un ottimismo eccessivo, quasi sempre toppano amaramente. Ho dunque fondate paure che si sia esagerato nel prevedere piacevolezze e mi ha molto rallegrato sentire il C.T. Vicini chiedere a tutti maggiore prudenza nelle previsioni. Quando abbiamo dichiarata paura, siamo anche modesti e ne traiamo vantaggi superlativi. Non aspettiamoci dunque facili passeggiate: speriamo invece di venire smentiti nel nostro pessimismo. L’ho detto anche dopo la partita con il Cannes: fare gioco non è mai stato il nostro forte. Ai Mondiali, molto verosimilmente, saranno gli altri ad offrirsi: così almeno ci conviene sperare. Il solo reparto sul quale si può giurare è la difesa. Il centrocampo va soccorso, come sempre; le punte sono attese a risultati per ora imprevedibili (da qui l’abbondanza dei convocati di punta). Da parte mia, auspicabili staffette in centrocampo e in attacco, fino a che non si ottenga il meglio. L’Austria e la Cecoslovacchia si equivalgono: hanno molto orgoglio e picchiano anche lontano da casa. Penso che riescano anche esse a passare il turno e poi, fatalmente, si debbano fermare per insufficienza di ritmo.

Girone B: troppi delusi con Lobanovski
Sanno tutti degli stenti accusati dall’Argentina, incapace di rinnovarsi come sarebbe ambizione dei suoi capi. La tendenza è quella di vederne il possibile rendimento nella condizione di Maradona, divino gaglioffo della pedata mondiale. Maradona rientra fra i geni e si sottrae a qualsiasi considerazione di indole morfologica. Il modulo di Bilardo ripete quello imposto da Enzo Bearzot nei Mondiali ‘82: non si ispirasse al più acre difensivismo, non avrebbe possibilità alcuna di successo. Vediamo intanto come se la cavano i campioni in carica con i misteriosi camerunesi, forse più belli (in senso morfologico) che buoni (in senso tecnico). L’Urss ha perduto Mikhailicenko, come a dire il suo elemento di maggior classe. Due russi famosi hanno deluso in Italia, altri in Francia e Spagna. Difficile dar molto credito a Lobanovski, risicato assertore del calcio come scienza esatta. L’istinto non molto altro, per ora induce a privilegiare i rumeni, sia per la pietà umana destata dal loro popolo, sia per le molte necessità pratiche dalle quali sono afflitti. Picchiano pure, corrono, forcano, impiccano: e il loro Hagi è un asso autentico. 

Girone C: è un Brasile stile prudenza
Brasiliani e svedesi si dicono certi di passare il turno. Gli svedesi, insolitamente sbruffoni, manifestano addirittura il proposito di metter subito sotto i brasileiros. Questo atteggiamento può anche insospettire in gente di norma cauta e perfino musona. Può darsi abbiano avuto notizie particolari sui loro antagonisti più temibili (ormai si sa tutto di tutti): quello che è certo si è che gli scandinavi si sdilinquiranno se il tempo si metterà secondo solstizio. Se invece farà fresco, come finora, chissà che non siano davvero capaci di sorprese grosse e squillanti. I brasiliani vanno pronosticati per l’insolito rispetto che il loro C.T. Lazaroni nutre per la difesa: questo rispetto esprime prudenza e non la sbruffonaggine di sempre. I tre titoli del Brasile sono stati colti con tanto di doppio terzino centrale d’area: quello che in Italia, paese di estremisti infantili, si è chiamato con spregio catenaccio. Lazaroni è un ex lombardo pragmatico: le sue scelte privilegiano i lavoratori, non gli artisti. 

Girone D: tedeschi bravi senza fuoriclasse
La longanimità di don Giovanni Agnelli, occupante armato di lire, ha concesso ai milanesi la soddisfazione di applaudire i tre tognini dell’Inter benamata nella formidabile armata di Beckenbauer. Kaiser Franz sproposita che questa sua edizione è anche più forte di quella che vinse il mondiale nel ‘74. Cuntela gista, bravom! Fa un certo effetto sentir parlare di fuoriclasse da parte di questa ex primadonna. Dove li vede mai? I tedeschi sono di classe media elevata, non irresistibile. I tre che conosciamo in Lombardia corrono malvolentieri (Brehme), corrono troppo (Matthaeus) pensando poco, si agitano molto ma spesso a vuoto (Klinsmann). Di ottima classe mi pare Voeller. I limiti di Berthold sono noti. I centrocampisti sono di livello notevole, non grandioso. Ma i tedeschi meritano sempre rispetto per la serietà del loro impegno e la fondatezza del loro orgoglio. Vanno visti tra i favoriti, con Brasile e, forse, Argentina. Dell’Italia preferisco non parlare per scaramanzia. Gli jugoslavi, nostri vicini orientali, sono travagliati da dissapori etnici. Fratelli, coltelli. Pare assodato che con gli olandesi a Zagabria abbiano sprecato molte palle gol prima di arrendersi, per rabbia, agli sfottò dei croati e alle impennate di Gullit e C. A parte la bullaggine di Osim, sono d’accordo nell’ammettere possibile un gran torneo di questi ragazzi più belli e bravi che fortunati. 

Don Luisito Suarez sulla caliente panchina spagnola
Girone E: l’equilibrista Suarez fa forte la Spagna
Tre squadre (compresa la migliore terza) destinate a passare il turno: l’Uruguay, il Belgio, la Spagna. Dagli uruguagi, lo sapessimo o no, abbiamo imparato quasi tutto dopo gli anni Venti (dominati invece dai danubiani e dai mister britannici). Quello che so io è che mi hanno insegnato più di tutti, a partire dai quattro bolognesi agli interisti Mascheroni e Scarone, al grandissimo indimenticabile Pepe Schiaffino (per tacere di Faccio, degno erede di Monti, e dell’elegante Abbadie). L’Uruguay non ha la popolazione di Roma e manda per il mondo 200 pedatori di ventura. Il suo tecnico promette novità che ci riesce difficile individuare, per il momento. Ha anche garantito che gli uruguagi hanno smesso di picchiare: questa excusatio non petita allarma e insieme diverte: le ultime botte le ho viste prendere da Ciccio Graziani al Mundialito. Per rispetto e gratitudine comprendo l’Uruguay fra gli outsiders di questo mondiale. Il Belgio è rappresentato da tosti fiamminghi, capaci di strozzare chiunque per una lira: per solito ottengono risultati superiori a quelli che dovrebbe consentire un piccolo grande Paese come il loro. Li vedo lottare ad armi pari, o anche leggermente superiori, con la Spagna di Suarez, al quale vogliamo bene come quando rilanciava i disimpegni di Picchi. La Spagna accusa la decadenza del grande Real: come l’Italia, lamenta anche una smodata importazione di talenti stranieri, dai quali vengono chiusi i migliori virgulti indigeni. Come e più dell’Italia, la Spagna s’affida a tecnici stranieri che non sanno niente dei latini e dei loro abituali anzi costituzionali limiti psicofisici. Suarez ha la fortuna d’essere celtibero della Coruna: fosse di Madrid non lo soffrirebbero i catalani di Barcellona e viceversa (con un velo pietoso sui fratelli baschi). 

Girone F: tutto dipende da Gullit 
Per fondato timore dei loro teppisti, hanno mandato sulle isole i superstiti di due grandi potenze marinare, l’Inghilterra e l’Olanda. Gli uruguagi hanno insegnato che Uruguay es el padre e Inglaterra la madre del futbol. Giusto l’orgoglio uruguagio, ma un tantino esagerato. In effetti, il pallone è arrivato sul Rio de la Plata con i macellai inglesi dei frigorificos. La storia è dalla loro parte e gli inglesi lo sanno bene, anche se questo ha molto influito sul loro destino. Il calcio da loro giocato è sempre mazzolato con grossolana pervicacia: rarissimamente vedi un dribbling, un’intuizione fuori cliché, una qualsiasi trovata. Ho seguito l’Italia a Wembley e ho visto un solo inglese giocare a quel biondo: l’ala destra del Marsiglia. Tutti gli altri, castroni di coccia dura e zoccolo distorto. Schemi sempre eguali, mazzolati con molta prosopopea. Non gli do un’unghia di credito e forse sbaglio. Tant’è. Gli olandesi, quelli sono ben altra gente. I loro splendidi mulatti hanno vero genio. Se ritrovano Gullit possono competere per il titolo mondiale, che sarebbe il primo della loro storia sciupona. La sola riserva mi viene imposta da Koeman II, il biondone che gioca libero e ricorda, capelli a parte, il lento a girarsi Di Bartolomei. Van Basten è un asso di rara eleganza: se ha voglia (leggi coraggio), nessuno al mondo lo vale. E poi c’è Gullit, fantasia e potenza, generosità e follia; e poi Rijkaard, uomo serio e buono. Insomma, se non si sdilinquiscono al caldo, inglesi e olandesi passano con l’Eire generosa. 

Ma poi andrà avanti la sola Olanda, e troverà la Germania, l’Italia, il Brasile, l’Uruguay, l’Argentina, la Romania, la Jugoslavia, la Svezia. Credo anche di sapere quali saranno le quattro semifinaliste ma non lo dico per non far torto a nessuno, nemmeno a me stesso, per una dannata volta. L’augurio, comunque, vale per tutti: godetevi i Mondiali e che Eupalla vi premi con buoni spettacoli di calcio.

"La Repubblica", 8 giugno 1990

E ora non scordiamo la morale del Mundial

di Gianni Brera

Un paio di giorni dopo la finale Gianni Brera tirò un bilancio del secondo Mundial messicano sulle colonne di "Repubblica" non mancando di esaltare la bontà e l'efficacia del suo amato gioco difensivo, contro tutte le cicale del "bel gioco"

San Giovanni non ha fatto inganni. Il calcio argentino ha avuto il fatto suo smentendosi finalmente secondo che esigeva il buon senso. Nessun Paese al mondo ha mai prodotto tanti campioni quanti l’Argentina: ma sempre aveva perso i grandi appuntamenti con la storia per innata stronzaggine dei suoi prodi. Anche questa volta la stupidità stava per trionfare. Il povero dottor Bilardo veniva perseguitato perché si apprestava a snaturare (?) el gran juego argentino. Roba da vomitare, pensate un po’: quel rozzo voleva un libero fisso alle spalle dello stopper (o degli stoppers): non voleva Passarella, gran cannoniere al cospetto del Signore; sopportava il solo Maradona, e gabellandosi per fine psicologo lo induceva a farsi più uomo, a ragionare da uomo-squadra, non più da solista mero. Il dottor Bilardo verrà presto imprigionato come indegno. Ha vinto ma ha smentito gli imbecilli, in un paese che ne vanta a milioni (Italia e Spagna sono buonissime fornitrici). Presto rimetteranno fuori il capino fatuo gli amatori del "bel gioco", dello spettacolo fine a se stesso: il calcio pratico verrà deplorato come si merita. Gli argentini ricominceranno a mancare appuntamenti con la storia. Finché non rinascerà un Bilardo dalle ceneri inconsunte dell’intelligenza. E così sia.

29 giugno 1986, Estadio Azteca, Ciudad de México
Diego Armando Maradona e Lothar Herbert Matthäus
Il "nondum matura" di Esopo ci è già pervenuto da Zagalo, che ha sempre fatto il contrario di quanto asserisce ma forse non ne aveva coscienza. E’ stato lui il primo a battere in breccia il WM inglese: c’era stato Prini-Fiorentina in Italia ma nessuno se n’era accorto, a incominciare dal povero Bernardini dottor Pedata (1956). Era molto argentino anche il dottor Pedata: anticipò di due anni il Brasile ‘58 ma non ne fece nulla perché sul piano teorico predicava all’inglese (e razzolava bene per sola fortuna sua, non del calcio italiano, Dio lo perdoni). Zagalo ha deplorato questo XIII Mundial tacciandolo di eccessi difensivistici. In un brasiliano è perfettamente normale. Anche perché i brasiliani sono tornati a casa per tempo, meritando pienamente di tornarci. Pretendevano di giocare con i simboli, come Valcareggi nel ‘74.

L’Argentina mi ha dato, vincendo, una soddisfazione che solo i tedeschi, vincendo, avrebbero potuto darmi. Ho visto subito forte l’Argentina, come sanno i miei lettori. Mi sono molto meravigliato quando dalla direzione mi hanno chiesto spiegazioni sul difficile status dell’Italia, così deludente con gli argentini. Siamo stati i soli a non perderci, con quella squadra insolitamente pragmatica. A me pareva un miracolo: agli italiani, poareti, uno sconcio. Vedo che adesso si sono accorti tutti di Burruchaga. Io l’ho visto pazziare duettando con Giusti e, in seguito, con Maradona l’immenso. Dopo un inizio folgorante, mi ha deluso Valdano. Ma certo è difficile emergere, quando si pirla intorno a dei giganti. Maradona è stato salutato come il dio della pelota in terra. In certi acuti ha superato Pelé, che nel complesso non valeva (ripeto, per me) Alfredino Di Stefano. Per Pelé si deforma anche la storia, assegnando a lui il mondiale ‘58, nel quale fu timido comprimario, e ancora il ‘62, nel quale giocò una sola partita. L’apporto di Pelé fu determinante nel ‘70, non in Svezia, dove grandeggiarono Didi, Vavà, Garrincha, Bellini, Orlando e Zagalo, e neppure in Cile, dove grandeggiò su tutti Garrincha, e poi Mauro, il libero, e quel caro mattocchio di Amarildo.

Avvicinandosi la finale, tutti stravidero per Maradona e consigliarono a Beckenbauer di marcarlo ad personam, diversamente da quanto avevano fatto inglesi e belgi. Beckenbauer ha cancellato quasi Maradona, dimostrando indirettamente, e suo malgrado, che l’Argentina era fatta di undici elementi, non di uno. Poiché la Germania ha perso, tutti hanno creduto di capire che la colpa era del tecnico, il quale aveva snaturato il centrocampo tedesco dedicando Matthaeus alla guardia di Maradona. Queste le son gratuite fregnacce. Beckenbauer è bravo e intelligente: con la gente di cui disponeva ha fatto il massimo. Ha imposto il nerbo e la serietà della sua rassa (meglio sarebbe dire della sua Kultur: le razze tedesche sono quattro: nordica, baltica, falica e alpina). Molto immodestamente dirò di sentirmi fiero per aver capito che i tedeschi erano forti proprio il giorno in cui le cicale danesi li hanno messi sotto. In verità avevano creato e poi sbagliato 5 palle gol. Purtroppo non avevano attaccanti. La riesumazione di Kalle Rummenigge è un merito di Beckenbauer, il quale non ha colpa se Allofs e Voeller sono meno agili di Galderisi e valgono quanto lui. La Germania è andata avanti imponendo un metodo difensivo, come l’Argentina. E naturalmente molti diranno che ha usurpato il posto in finale.

18 giugno 1986, Estadio La Corregidora, Querétaro
Ricardo Gallego Redondo e Preben Elkjær Larsen
Il calcio è difficile e può esser visto in molti modi: però ha sempre più ragione chi vince. I russi giocavano un bel calcio, spensierato e quindi fesso. Sono tornati come i danesi, che producevano un calcio anche più bello: ma quando veniva chiamata in causa la loro difesa erano persi. Ai francesi sono mancati Platini-regista e le punte, troppo brocche in confronto del centrocampo. Ha segnato parecchio Platini ma da solo non poteva bastare: e in centrocampo riposava. Era la metà del campione conosciuto gli altri anni in Italia. Merito di un tecnico è portare al grande appuntamento la gente nella forma migliore. Bilardo vi è riuscito a differenza di Michel. E vi è riuscito Beckenbauer, confortato - come Bilardo - dalla ferrea convinzione difensivista. Il Belgio si è anche difeso ottenendo risultati superiori ai suoi mezzi. In attacco non aveva che Ceulemans: Scifo è grazioso ed elegante: batte bene: per ora non ha la stoffa del regista: tanto meno è goleador (a parte l’abilità balistica sui calci franchi). La Spagna ha fatto cinquina con i danesi, del tutto dimentichi di avere anche una difesa. La superiorità pratica del difensivismo, rispetto all'offensivismo, è data proprio da questo: che per segnare, Elkjaer deve essere in vena; mentre per opporsi a Elkjaer basta una metodica tenacia: inoltre, può soccorrerti anche la fortuna, inducendo il goleador a sbagliare malamente. Con la Spagna ha fatto prodezze Butragueo, che nessun danese si è degnato di notare. Marcato a modo, l’Avvoltoio è piccione come gli altri.

Sui pianti destati dall'Italia è carità di patria non tornare. I nostri magnifici azzurri sono ai bagni. Bearzot è scomparso. Vecchiet non merita di venir disturbato. Per uno degli infiniti transfert di cui approfittano gli italiani, tutti sono felicissimi del titolo mondiale toccato all'Argentina e in particolare a Maradona, che si è deliziosamente allenato a spese del Napoli. La situazione ricorda quella, tristissima, evocata da una barzelletta romana. Dice: "Noantri semo poveri e gite nun ne famo. La domenica si sta a casa. Nostro padre legge il giornale. Ogni tanto tira du’ scorregge e noi tutti intorno a ride".

"La Repubblica", 1 luglio 1986

Grazie a Gigi

di Gianni E. Reif

Su "La Stampa" del 13 aprile 1970, Gianni E. Reif commentava la straordinaria impresa cagliaritana. Intessendola di profezie che riflettevano il comune sentire degli italiani dediti al calcio

II Cagliari di Manlio Scopigno e di Gigi Riva, coma era ormai nell'aria, ha vinto, anzi stravinto con due domeniche d'anticipo questo storico campionato. Un campionato - sarà bene sottolinearlo - tenuto in piedi fino al limite umanamente possibile dalla sola irriducibile Juventus, mentre le altre grandi sono rimaste quasi compre latitanti, fatta eccezione per qualche sprazzo casalingo dell'Inter di Heriberto. Un campionato storico comunque, perché vinto per la prima volta appunto nella storia dal calcio italiano, da una vera autentica provinciale, addirittura da una squadra che viene dalla gavetta della serie C, da una squadra cioè completamente fuori dal giro, costretta per giunta a volare dall'isola al continente - e viceversa -, per quindici volte l'anno.

Una grande squadra, senza dubbio, magistralmente costruita e diretta dal tecnico più anticonformista, più contro corrente, più psicologo, più umano ed intelligente made in Italy. Una squadra quasi perfetta, imperniata sulla strapotenza del miglior uomogol d'Europa e forse (Pelé permettendo) del mondo. E' uno scudetto questo che si chiama Gigi, anche se nel Cagliari tutti hanno contribuito, senza eccezione, al meritatissimo trionfo, da Albertosi in grandissima annata all'onnipresente Nené, dal regista Cera al maratoneta Domenghini, dallo sfortunato Tomasini all'implacabile Niccolai, dal vecchio Martiradonna al giovane Bobo Gori che ha segnato l'ultimo gol del Cagliari, quasi in trance, perdendo poi i sensi per l'immensa gioia.

Quando l'estate scorsa, dopo aver concluso apparentemente a malincuore l'affare Boninsegna, Scopigno dichiarò che l'ex centravanti «di scarto» dall'Inter sarebbe diventato la spalla ideale di Riva, qualcuno la prese per una battuta classica dei filosofo, che invece non era mai stato più serio in vita sua. Oggi Bobo Gori, al servizio di Riva, ha senza dubbio maggiori probabilità azzurra di Boninsegna; in Messico ci andrà di sicuro e se qualcuno dovesse giocare al posto di Anastasi, sarà lui, l'umile fedele ma astuto gregario del gran capo Gigi che, calcisticamente parlando, equivale a Coppi o a Merckx. Nessuno si può sognare di discutere ormai un desiderio di Riva.

Se lo scudetto si chiama Riva, sarà giocoforza impostare la nazionale come Scopigno ha impostato il Cagliari: cioè tutti per Riva o Riva per tutti. Sarà un rischio ma un rischio calcolato, perché l'ala del Cagliari, anche con le tonsille infiammate, ci assicura in primo luogo contro una seconda Corea. In secondo luogo, nel Messico, dove certo lo conoscono meno ... che in Italia, Gigi Riva può segnare due gol per partita. Ed a rigor di logica, se ne segna dieci, l'Italia arriva dritta In finale. In fondo potrebbe essere anche più facile portare a casa per la terza volta la Coppa del Mondo che aver portato per la prima volta lo scudetto in Sardegna, dove ai tempi di Meazza e Piola, non esisteva nemmeno il vecchio, stretto, demolendo Amsicora, troppo mini ormai per questo maxi Cagliari autodidatta che, dalla serie C, è giunto in pochi anni alla Coppa dei Campioni: magari per vincerla l'anno prossimo secondo i piani già prestabiliti dall'impassibile filosofo.

Italia vs Brasil, 1982

Se le dichiarazioni di Arthur Antunes Coimbra, in arte Zico, sul trauma del Brasile 1982 – “If we had won that game, football would have been different” – erano probabilmente rivolte in primo luogo al mondo della pelota brasiliana [vedi], nondimeno esse esprimono una convinzione radicata e diffusa: “that defeat for Brazil was not beneficial for world football”.

L’interpretazione “storico-critica” (per dirla alla Gioanbrerafucarlo) più convincente a me pare quella data da Jonathan Wilson in un articolo dello scorso luglio in occasione del trentennale: “Brazilians may like to claim that their defeat at the 1982 World Cup killed a great style of play but it was really the day that the system triumphed over an already declining method” [vedi]. In sostanza, il gioco del Brasile si affidava al grande movimento e alle giocate individuali dei suoi centrocampisti, ma prevalse l’organizzazione, la qualità e la determinazione degli Azzurri. Brian Glanville osserva giustamente [nella sua Story of the World Cup, London, 2010, p. 251] come quello si rivelò “the game in which Brazil's glorious midfield, put finally to the test, could not make up for the deficiencies behind and in front of it".

La disposizione tattica del Brasile
A dirla tutta, cioè, quell’XI verde oro non era una squadra di soli campioni, ma anche di qualche ronzino. A un centrocampo sontuoso – con due registi bassi come Toninho Cerezo e Falcao e due trequartisti come Sócrates e Zico – facevano da contrappeso una difesa modesta – con un portiere improbabile come Waldir Peres e due centrali normali, quando non incerti, come Oscar e Luizinho – e un centravanti di peso, capace di creare spazi, ma di cui sempre Glanville ricorda come un critico brasiliano osservasse come “when Serginho plays, the ball is square”. Ad affiancarlo in attacco era Eder, dotato solo di una gran lecca di sinistro. Sulle fasce salivano i terzini Leandro e Junior, buoni giocatori, soprattutto il secondo, ma con qualche amnesia nella fase difensiva.

La partita è visibile in rete e ognuno può farsi un’idea di quell’incontro [vedi]: secondo Wilson “the greatest World Cup game ever” insieme a Ungheria-Uruguay del 1954 [vedi]. È possibile – come sostengono molti (tra cui i due critici inglesi summenzionati) – che se a passare inizialmente in vantaggio fosse stato il Brasile, il match avrebbe avuto un altro svolgimento: ma non ne sarei così sicuro, perché – a vederli e rivederli – gli Azzurri scesero in campo determinatissimi fin dal primo minuto, senza alcun timore reverenziale, e convinti di poter sfruttare le debolezze difensive dei brasiliani. Nei primi dieci minuti della partita – probabilmente i più belli di tutti i tempi della nostra nazionale – il Brasile fu messo sotto, senza requie. Racconta Dino Zoff [in Roberto De Ponti, Conversazioni con Dino Zoff: Campioni del Mondo, Reggio Emilia, Aliberti, 2006, le citazioni successive sono alle pp. 43 e sgg.] che nello spogliatoio, prima che la partita cominciasse, Bearzot “seppe trovare le parole giuste per tranquillizzare il gruppo”: “Siamo sicuri di essere poi così più deboli di loro? La pressione è tutta sul Brasile: facciamogliela sentire, questa pressione. Questa potrebbe essere la nostra ultima partita in questo Mondiale, allora giochiamocela alla grande”.

Sempre Zoff svela alcuni particolari sui gol subiti, che sono rimasti incisi (come quelli di Pablito, che “came suddenly and sensationally to life”, nell’enfasi di Glanville) nella memoria di tutti. Sul primo, frutto di una larga triangolazione tra Sócrates e Zico [rivedi], Dino sottolinea come o Doutor tirò sul primo palo “da distanza ravvicinatissima. Io il piede ce l’ho messo, quel palo lo coprivo, ma il tiro era violento e preciso. In ogni caso, in quell’occasione mi presi le mie responsabilità”. Sul secondo – forse il più bello dei cinque [rivedi] – “Falcao fece una bella finta sulla destra che sbilanciò Scirea, poi tirò di sinistro, che non era esattamente il suo piede, e io ero già sulla traiettoria. Poi però Bergomi deviò in modo impercettibile il pallone, ma quel tanto che bastava per alzarmi la traiettoria di una trentina di centimetri. Vidi che la palla mi si alzava all’improvviso ma non riuscii a deviarla. Mi passò appena sopra le mani e mi arrabbiai moltissimo per non essere riuscito a fermare quel tiro”. Sulla parata “più importante” della sua carriera, quella sulla linea di porta all’ultimo secondo sul colpo di testa di Oscar [rivedi], Zoff svela come “passai i cinque secondi più lunghi della mia vita, terribili. Fermai la palla lì, non ebbi il gesto di tirarla verso di me: ero terrorizzato che l’arbitro potesse vedere male. I giocatori del Brasile alzavano le braccia chiedendo il gol. Io cercavo l’arbitro e non lo vedevo. Poi quando l’ho visto spuntare da dietro una selva di compagni e avversari e ho visto il guardalinee che rimaneva fermo vicino alla bandierina, mi sono tranquillizzato”.

La memorabile marcatura che "Sala ed Din" Gentile riservò a Zico
Fuori d’Italia – e mercé anche la nostra tradizione culturale pedatoria – la partita è convenzionalmente passata alla storia come il paradigma del confronto tra la scuola del gioco d’attacco e quella del gioco di difesa. Se si ascolta la telecronaca della televisione spagnola, il giornalista si riferisce sin dal pre-partita alla nostra tradizione del “catenaccio”, peraltro per poi riconoscere sin da subito, non senza ammirata sorpresa, che quell’Italia stava giocando magistralmente, e lontanissima da quel cliché. Sempre Wilson sottolinea come “Italy were in the phase of il gioco all'Italiana rather than out-and-out catenaccio, but caution remained they underlying theme”. Uno slittamento di senso – fatto proprio, per esempio, anche da Mario Sconcerti [nella seconda parte della sua Storia delle idee del calcio] – che tende a interpretare la contaminazione con il calcio olandese e tedesco degli anni settanta, avviata da Fulvio Bernardini e sviluppata con esiti estetici (1978) e vincenti (1982) da Enzo Bearzot, che innestò sul tralice della tradizione di Viani, Herrara e Rocco (“Mi fazo catenaccio, lori xe prudenti”) le novità dell’eclettismo individuale e della marcatura mista, a zona e a uomo. Una trasformazione che Wilson riassume tatticamente nel “making the libero a far more rounded player, a converted inside-forward in Gaetano Scirea rather than a converted full-back like Ivano Blason or Armando Picchi, capable of stepping out from the back and making an extra midfielder when his side had possession”. Ma che fu anche qualcosa di più delle memorabili avanzate di Scirea, a testa alta e con stile maestoso, nelle metà campo avversarie.

In effetti, in quei primi giorni di luglio affuocati dalla calura catalana, mentre Mastro Brera si rivolgeva sl soprannaturale (“dovessi impostare io la squadra contro il Brasile, incomincerei con un breve pellegrinaggio al Tibidabo dove mi risulta che agisca in pro dei poveri cristi una Madonna miracolosa” [Gianni Brera, Il più bel gioco del mondo, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 295 e sgg. ], Bearzot preparò la partita magistralmente, immaginando e mettendo in pratica una grande organizzazione di gioco, moderna perché capace di coniugare la tradizione di marcamento a uomo con i rinnovati dettami della copertura a zona del campo, con alcuni interpreti (Scirea, Tardelli, Conti, Cabrini) capaci di incarnare il concetto di fondo del calcio totale, cioè l’eclettismo. Due sole marcature fisse: una statica, di Collovati, sulla boa Serginho; una in continuo movimento, di Gentile, su Zico, seguito fino alla toilette se necessario. Ma tutte le altre disposte a zona: sulla fascia destra Oriali a impedire le avanzate e i tiri di Eder, e, più avanti, Conti a impensierire le avanzate di Junior; sulla sinistra, in assenza di un’ala destra brasiliana, Cabrini a presidiare il territorio e a prendere in carico chi si facesse avanti tra Zico e Sócrates, con Graziani capace di seguire Leandro da un’area all’altra. Ma quando i giocatori brasiliani viravano al centro, o in diagonale, erano presi in custodia da altri, in primo luogo Tardelli, che badava innanzitutto  a Sócrates in mezzo al campo ma lasciandolo a Oriali o a Cabrini sull’esterno. Scirea, nato centrocampista in quel di Bergamo, era l’uomo in più, in un’infinità di spazi sia difensivi sia di impostazione. Più avanti Antognoni andava a incontrare i tacchetti di Falcao e Cerezo, sulle avanzate dei quali tagliavano la strada Conti e Graziani in prima battuta. Solo Rossi era lasciato al suo caracollare da passerotto, ma se lo si osserva bene rientrò nella nostra metà un’infinità di volte a coprire gli spazi. A guidare il gruppo erano le urla di Dino Zoff, in un memorabile mantra patriarcale udibile ancor oggi in telecronaca.

L'Italia 1982 in un ipotetico 4-2-3-1 anni Duemila
Erano dei grandi giocatori, in effetti, alcuni dei veri e propri campioni: Zoff, Tardelli e Scirea su tutti, a mio avviso. Che avrebbero potuto benissimo interpretare anche il calcio attuale di pressing e di zona. Proviamo a liberare la fantasia riflettendo un attimo sullo schema tattico proposto qui accanto secondo i dettami dell’odierno 4-2-3-1. La linea difensiva davanti a Zoff sarebbe composta da due esterni abilissimi in entrambe le fasi (come ora si suol dire), tignosissimi sull’uomo ma anche capaci di crossare in area palloni insidiosi come di andarli a prendere (basti pensare al traversone di Gentile sul primo gol contro la Germania nella finale, con Cabrini che si tuffa insieme a Rossi), e da due centrali come Collovati, votato alla copertura, e Scirea, capace di fare cominciare l’azione da dietro con precisione di lancio e passaggio. In mezzo due mediani come Oriali, taglio e cucito, e Tardelli, calciatore “universale” prima di Sacchi e “totale” dopo Michels. Rossi punta avanzata, con l’obbligo di fare movimento e creare spazi. Alle sue spalle Antognoni, dalle grandi capacità di corsa e di tiro, oltre che dotato di buon lancio. Sulle fasce, il genio e la copertura di Conti e la “generosità” in ripiegamento di Graziani. Anche la panchina sarebbe sontuosa e adattissima: Galli, capace di giocare la palla coi piedi; il duttile Bergomi (per sempre immortalato nel duetto con Scirea in area teudisca nella finale del Bernabeu) e Vierchowod, centrale difensivo velocissimo; Baresi, centromediano totale e campione immenso; “pinna d’oro” Marini, interfaccia più euclidea di Oriali; Dossena, uomo d’ordine e di qualche fosforo; Causio maestoso attaccante di fascia e piedi raffinatissimi, e infine Altobelli, attaccante universale. Beh, sì: campioni del mondo. Non per caso.

Azor
(Dicembre 2012)