Europa '72

La Deutsche Fußballnationalmannschaft del 1972
Euro storie

L'Europeo del 1972 è forse tra i più evocativi sul piano storico. La fase finale si svolse in Belgio, la cui capitale si avviava a diventare in quegli anni la sede burocratica della nascente Comunità europea. A contendersi il titolo furono due nazioni del blocco orientale, l'URSS e il suo inquieto satellite ungherese, e due nazioni bastione dell'Alleanza atlantica, la Germania ancora dolorosamente divisa e appunto il Belgio, naturale sede geografica di molte agenzie politiche e militari occidentali, a cominciare dalla NATO. A dieci anni dalla cosiddetta crisi missilistica di Cuba, la tensione tra i due blocchi rimaneva alta, e l’Europa ne era il naturale teatro, potenzialmente anche di guerra: solo quattro anni prima, proprio nell’anno dei campionati continentali in Italia, l’invasione militare della Cecoslovacchia aveva messo fine alla “primavera di Praga”, vale a dire alla speranza di una riforma socialista, e di lì a poco il regime guidato da Leonid Brežnev avrebbe deciso un ulteriore riarmo nucleare. Questo era il clima che circondava anche il mondo del calcio.

14 giugno 1972, Stade Émile Versé, Bruxelles
Davanti a pochi intimi si gioca la semifinale d'oltre cortina:
il portiere magiaro István Géczi anticipa in uscita bassa gli attaccanti sovietici

Il pallone e i suoi protagonisti rimasero semmai uno dei pochi canali di contatto pacifico tra nazioni ideologicamente contrapposte e tra le quali i rapporti di scambio di uomini e merci erano sostanzialmente inesistenti, divise com’erano da quella che veniva allora chiamata la “cortina di ferro”. Un’analisi in dettaglio meriterebbe, per esempio, proprio per il significato politico di ponte tenuto aperto, la riesumazione della Coppa Mitropa tra il 1955 e il 1989, un torneo di grande prestigio nel periodo tra le due guerre e riservato poi a squadre di secondo rango di Austria, Cecoslovacchia, Italia, Jugoslavia e Ungheria. Soprattutto da parte degli stati dell'Est fu forte infatti l'investimento, anche propagandistico, nel calcio come più in generale nello sport. Nei giochi olimpici essi potevano fare vantare il loro status “dilettantistico” (che mascherava la realtà della gestione statale dello sport socialista): dal 1952 al 1988 a dominarne i tornei di calcio furono ininterrottamente le nazionali dell’Est (che lasciarono campo a quelle occidentali solo nell’edizione USA del 1984, boicottata per ritorsione politica); pochi mesi dopo l’Europeo del 1972, alle Olimpiadi monacensi il “cappotto’’ fu addirittura completo: prima la Polonia, seconda l’Ungheria, terze a pari merito l’URSS e la Germania Est; qualcosa di inimmaginabile ai giorni nostri. Anche nei tornei continentali per club le squadre dell’Est figurano nei palmarès di quegli anni, come vedremo.

Proiettato sullo scenario della Guerra fredda, il percorso della Germania nel campionato europeo del 1972 appare a sua volta densamente simbolico: per imperscrutabili disegni di Eupalla, la sua nazionale dovette evocare alcune delle tappe più dolorose della sua storia recente. Nel gruppo di qualificazione affrontò la Turchia, da cui proveniva la sua comunità di immigrati più ampia e più problematica in termini di convivenza religiosa e di integrazione dei costumi sociali (una ferita tuttora aperta, come ci ricorda il bel film di Fatih Akin, Gegen die Wand [qui alcune scene]), l’Albania, occupata dai nazisti nel 1943, e la Polonia, la cui invasione nel settembre del 1939 aveva segnato l’inizio della seconda guerra mondiale e che avrebbe inflitto sofferenze indicibili al popolo polacco. Nei quarti, i tedeschi furono accoppiati all'Inghilterra, il loro più fiero e indomito avversario durante il conflitto bellico. Gli avversari finali furono il Belgio, occupato in soli 18 giorni nel maggio 1940 (in un clima di evacuazione descritto vividamente in uno dei romanzi più torbidi di Georges Simenon, Il treno [scheda]), e l’URSS, un totalitarismo dapprima spregiudicatamente alleato, quando si era trattato di spartirsi la Polonia e i paesi dell’Europa orientale, e poi nemico e oggetto dell’Operazione Barbarossa tedesca naufragata nel fallimento dell’assedio terribile di Stalingrado. In breve, in sole dieci partire la Germania dovette riavvolgere la pellicola della propria memoria storica del Novecento: quando i suoi calciatori scendevano in campo il confronto internazionale con gli altri popoli insinuava comunque i suoi spettri.

Una pausa durante gli allenamenti della Germania
nelle fasi di qualificazione del Campionato europeo del 1972:
si riconoscono Günter Netzer, Paul Breitner,
Horst-Dieter Höttges, il CT Helmut Schön e Wolfgang Overath
Ma il dato nuovo fu che la Deutsche Fußballnationalmannschaft parlò un linguaggio inedito, che la povertà lessicale dei media, che rispolverarono per l’ennesima volta la consunta metafora delle Panzerdivisionen, tradiva del tutto: la Germania guidata da Helmut Schön e innervata da una straordinaria genìa di campioni, mostrò invece un calcio intenso, spettacolare, bellissimo. Dopo la positiva partecipazione ai mondiali del Messico del 1970, culminata in una delle partite dalla trama drammaturgica più ricche di tutti i tempi (e che forse non a caso arrise agli eredi della “commedia dell’arte italiana”), la Germania mostrò il meglio di sé nell’Europeo del 1972. Fu quella nazionale a fare da traino alle vittorie delle squadre tedesche nelle competizioni internazionali per club. Dopo l’iniziale predominio del calcio spagnolo e poi di quello italiano, e salva la parentesi olandese, fu finalmente il calcio tedesco a dominare la scena negli anni ’70 (sia pure in condominio con quello inglese): alle dieci finali di Coppa dei campioni tra 1974 e 1983 arrivarono per ben sette volte squadre tedesche, che la vinsero per tre anni consecutivi col Bayern Monaco (1973-1975) e poi con l’Amburgo nel 1983; nello stesso periodo (1973-1982) furono per sei volte finaliste nella Coppa UEFA (con vittorie del Borussia Mönchengladbach nel 1975 e 1979 e dell’Eintracht Frankfurt nel 1980); mentre nella Coppa delle coppe, dopo i fasti del quadriennio 1965-1968 (quattro finaliste consecutive, e titoli al Borussia Dortmund nel 1966 e al Bayern Monaco nel 1967), la partecipazione si contrasse a un minore blasone (Amburgo vincitore nel 1977, Fortuna Düsseldorf finalista nel 1979). Giocatori simbolo di quegli anni furono il “Kaiser” Franz Beckenbauer (Pallone d’oro nel 1972 e nel 1976, d’argento nel 1974 e 1975 e di bronzo già nel 1966) e “Der Bomber” Gerd Müller (Pallone d’oro nel 1970, d’argento nel 1972 e di bronzo nel 1969 e 1973).

A dire il vero, la favorita nei pronostici era l'Italia campione in carica e vice campione del mondo. Ma i "messicani", come si usò chiamare in quegli anni i protagonisti del memorabile mondiale americano (festeggiati, peraltro, da una vergognosa gragnuola di pomodori al patrio riapprodo) avevano ormai imboccato il viale del tramonto senza che si profilassero ricambi alla loro altezza. Vinsero un non esaltante gruppo di qualificazione che li aveva opposti all'Irlanda, alla Svezia e all'Austria, ma naufragarono inopinatamente nei quarti contro il Belgio, una nazionale senza blasone ma vivificata in quel torno di anni da una felice generazione di buoni pedatori, guidati dal capitano Paul Van Himst, un centrocampista di classe e sostanza. I belgi ci misero fuori usando le nostre armi: strenuo catenaccio al San Siro di Milano il 29 aprile 1972, dove Valcareggi ripropose 8/11 della formazione che aveva vinto l'Europeo del 1968 (fatti salvi Albertosi, Bedin e Cera per Zoff, infortunato, Guarnieri e Salvadore) [tabellino], e micidiale contro gioco allo Stade Émile Versé (al Parc Astrid di Anderlecht, uno dei comuni che compongo la grande Bruxelles) quindici giorni dopo, fronte al quale l'afasia della nostra manovra, non sostenuta nemmeno da una condizione atletica decente, nulla poté se non una rabbiosa zompata del mastino Mario Bertini a spezzare la gamba destra di Wilfried van Moer (rea di aver aperto le marcature) e un rigore a pochi minuti dal termine di Gigi Riva con il quale ammainammo tristemente la bandiera sul continente [tabellino | HL].

29 aprile 1972, Wembley Stadium, London
Josef Dieter "Sepp" Maier fa sua la palla anticipando Francis Henry Lee
in uno dei quarti di finale europei più belli di sempre
Negli altri confronti diretti, l'Ungheria fu costretta alla partita di spareggio da una assai coriacea Romania, mentre l'URSS batté nettamente la Jugoslavia raggiungendo per la quarta volta consecutiva le semifinali della competizione. Il grande confronto fu però quello che mise nuovamente di fronte l'Inghilterra alla Germania. Gli antefatti sono noti: gli albionici avevano vinto il loro unico mondiale, in casa, nel 1966, battendo in finale i tedeschi in una bella partita di corsa e agonismo macchiata da un gol fantasma validato da un guardalinee sovietico di sospetta integrità (a dire di mastro Brera). I tedeschi si erano presi la rivincita quattro anni dopo in Messico, estromettendo ai quarti gli inglesi in un avvincente 3:2 risolto da Der Bomber der Nation al 106°. Ma la vera vendetta fu consumata sul pitch di Wembley il 29 aprile 1972 in una delle partite più belle di tutti i tempi (e di cui possiamo gustarci in rete il filmato intero [tabellino | FM]).

Mi ricordo ancora lo stupore e l'entusiasmo che mi avvinsero in quel tardo pomeriggio da ragazzo davanti a una TV ancora in bianco e nero, perché non immaginavo che il gioco del calcio potesse essere davvero così bello (che fosse il più drammatico lo avevo invece già sperimentato nella notte dell'Azteca di due anni prima). I tedeschi dominarono il primo tempo mettendo in cattedra il loro esaltante regista biondo, Gunther Netzer, capace di possenti giocate e di tessiture continue. Ma al riposo il risultato era bugiardo perché i sassoni avrebbero meritato più del gol di Uli Hoeness. La veemente reazione degli angli nella ripresa fu premiata da un gol di Francis Lee, che al 77° rimise in precaria e illusoria parità la gara. Un terrificante uno due di Netzer su rigore e di Müller alla sua maniera, tra 85° e 88°, fecero assumere allo score finale la misura di una disfatta. Wembley era espugnato. Lo shock per gli inglesi fu enorme: i commenti evocarono subito il doloroso ricordo del 6:3 inflitto vent'anni prima, e sempre nel Tempio, dagli ungheresi dell'Aranycsapat, perché gli inglesi avvertirono il senso della fine dell'era Ramsey che, a costo di rinunciare all'ortodossia del WM, li aveva portati sul tetto del mondo. La partita è parte integrante ovviamente dell'Anatomy of England di Jonathan Wilson, in quanto "one of the seismic events in English football history". Da allora la convinzione inglese di essere i migliori del mondo si incrinò per sempre, alimentando le illusioni e gli scoramenti che li accompagnano ormai da quarant'anni ad ogni torneo, e anche la percezione che "football is a simple game: 22 men chase a ball for 90 minutes and at the end, the Germans win”, come nella nota battuta di Gary Linecker.

29 aprile 1972, Wembley Stadium, London
Ulrich "Uli" Hoeneß prova a saltare Paul Edward Madeley


I tedeschi infatti – che pure non potevano schierare il loro regista mancino di qualità Wolfgang Overath, infortunato in quella annata – avevano mostrato un calcio nettamente superiore, bellissimo, irrorato dalla qualità di campioni come "Sepp" Maier in porta, Beckenbauer a dirigere la difesa e ad avviare il gioco, Georg Schwarzenbeck bastione centrale, Paul Breitner terzino sinistro capace di folate offensive, così come lo era, sull'altro versante, il giovane mediano dalle rapidissime incursioni Hoeness; a coprire le spalle di Netzer pensava il roccioso compagno di club (nel Borussia del "Ruscello della pace dei monaci", alias Mönchengladbach, nella poetica traduzione di Gioanbrerafucarlo) Herbert Wimmer. Davanti si muoveva l'implacabile Müller. Ma tutta la squadra, anche nei comprimari, giocava una miscela inedita di grandi qualità tecniche, rigore tattico e intensità agonistica. Artefice dell'assemblaggio era il CT Helmut Schön, che avrebbe retto il ruolo per ben 14 anni, dal 1964 al 1978, entrando nella leggenda come l’unico allenatore capace di vincere sia il titolo europeo (1972) sia quello mondiale (1974), di arrivare in finale una seconda volta in entrambe le competizioni (1966 e 1976) e di mettere in paniere anche un terzo posto (1970).

La fase finale appariva ormai scontata, e lo fu. Il sorteggio si allineò al bipolarismo politico, garantendo scontri finali incrociati, in cui prevalse l'Occidente. La semifinale orientale raccolse pochi intimi (solo 1.659 spettatori, la platea più misera di sempre per una semifinale europea) la sera del 14 giugno 1972 allo Stade Émile Versé di Bruxelles, perché l'attenzione dei padroni di casa era ovviamente tutta concentrata sul Bosuilstadion di Antwerp (stipato all’inverosimile: oltre 55.000 spettatori) dove, alla stessa ora, il Belgio provò inutilmente a giocarsela con i tedeschi. A Bruxelles l’Ungheria tenne in mano il gioco senza risultare mai pericolosa e fu uccellata da un tiraccio di Anatoliy Konkov che passò tra una selva di gambe sugli sviluppi di un calcio d’angolo al 53°; a cinque minuti dalla fine sprecò anche un rigore con Sándor Zámbö, il cui tiro fu intercettato all’angolino da Yevgeniy Rudakov, che regalò la terza finale in quattro edizioni all’Unione Sovietica [tabellino | HL]. Nelle Fiandre, invece, i belgi poterono poco contro una determinatissima Germania, che mise immediata pressione alle retrovie avversarie e giunse al gol due volte con il suo Bomber imbeccato in entrambi i casi da Netzer; Odilon Polleunis, detto "Lon", già Soulier d'or belga nel 1968 (quando militava nel Saint-Trond), passò allo storia marcando a 7 minuti dal termine il golletto della bandiera [tabellino].

18 giugno 1972, Stade du Heysel, Bruxelles
L'implacabile Der Bomber mette a segno
il primo e il terzo (qui) gol della finale contro l'URSS
I padroni di casa sfogarono la delusione sugli ungheri tre giorni dopo allo Stade Maurice Dufrasne di Liège (noto anche, non senza qualche esagerazione come l'Enfer de Sclessin, dal nome del quartiere in cui è sito): davanti  a nemmeno 7.000 compatrioti (evidentemente il paese aveva creduto davvero alla possibilità di vincere il titolo) les Diables Rouges (o anche Rode Duivels per i politicamente corretti) appiopparono un uno-due in cinque minuti tra 24° e 29°, portando anche al record del 30° gol il loro capitano van Himst; i magiari segnarono su rigore (questa volta affidato a Lajos Kü) un gol utile solo alla statistica e recitarono con dignità il loro ruolo di comprimari [tabellino | HL]. Anche la finalissima – andata in scena il 18 giugno 1972 allo Stade du Heysel di Bruxelles – ebbe un esito scontato. I russi erano già stati martellati dai tedeschi in un'amichevole monacense nemmeno un mese prima da una quaterna di Müller [tabellino | FM], e non furono in grado di opporre gioco a una squadra che stava vivendo il suo hapax. Il risultato finale (3:0, con la solita doppietta di Müller e il condimento di un gol di Wimmer) è tra i più ampi di una finale europea e non lascia dubbio alcuno sul divario tra le due compagini [tabellino | HL | FM]. La Germania giocò bene ma non la sua partita più bella di quell’anno. Ed è opinione diffusa che non si ripeté ai livelli raggiunti nel 1972 nemmeno ai mondiali vinti due anni dopo, in una finale di massimi sistemi epici e tattici contro la squadra che vi aveva fatto vedere, in sette partite indimenticabili, il calcio totale più bello di tutti i tempi [vedi].

Azor